I diari di viaggio di Roberto Galati

Di Roberto Galati ho scoperto casualmente un paio di anni fa l’uscita Alps, che, per uno strano caso del destino ho ascoltato in tempi ravvicinati con altri due dischi a tema montano e viandante, quelli di OLO ed Enrico Coniglio. L’impressione che la musica di Roberto mi fece all’epoca fu quella non di un commento né di un collegamento ad ambienti di altura, bensì ad una traduzione dei moti stessi di certa natura. Viaggiando brevemente per il suo sito si può scegliere quanto entrare nella sua storia e nella sua vita e noi abbiamo scelto di farlo con una chiacchierata, fra Padova, Trieste, il mondo ed il suono.

Ciao Roberto, molto piacere innanzitutto. Io ho ascoltato il tuo ultimo disco, del quale ho scritto, ma non ho esplorato più di quel tanto il tuo passato musicale, avendoti fondamentalmente scoperto con Alps (uscito nel 2022). Partiamo quindi con le domande scomode: di che classe sei? Quando hai iniziato a suonare?

Roberto Galati: Questa è la più brutta! Io sono della fine del 1974, quindi questo è, direi, un anno importante, molto importante… sull’inizio della mia pratica musicale ci stavo riflettendo giusto in questi mesi. Io ho sempre suonato, da che ero un ragazzino, dall’infanzia. Le riflessioni che faccio io in questi giorni ed in questi mesi, con l’uscita di questo disco (che è un po’ coronamento della mia carriera, chiamiamola così) parlano di una passione che porto avanti da sempre. Ho iniziato a comporre in maniera cosciente dall’adolescenza, prendendo lezioni di piano quando andavo alle elementari, per poi fare delle lezioni di chitarra in età adulta. In mezzo c’è sempre stato questo interesse nel potermi esprimere con i mezzi che avevo. Io non ho una formazione accademica, assolutamente, lo devo dire, a differenza di molti colleghi con passaggi in conservatori ed accademie. Però ho sempre avuto una spinta per l’ascolto e per fare musica, da sempre.

Che però non è l’unica cosa che fai, visto che suoni, scrivi, fotografi e presumo cammini. Diverse cose, che mi rendo conto non ho approfondito, visto che ti conosco sul piano sonoro, che vanno a costruire “Galati come entità”.

Chi non mi conosce può fraintendere: io non mi definisco un musicista, non ho le capacità per esserlo e quando mi si dice che sono un sound artist forse mi ci riconosco di più, perché gioco con i suoni. Diciamo che mi piace osservare, mi sento più un osservatore e come tale traduco poi quel che vedo nei viaggi soprattutto, facendolo con musica, parole ed immagini. È un percorso che sto facendo senza impormelo… è semplicemente la mia vita. Forse ho questa necessità, questo desiderio di esprimere ciò che osservo e che vedo con i mezzi che ho.

Il fatto di creare un ritratto di qualcuno/qualcosa tramite diversi strumenti artistici è interessante su più livelli. Conoscendoti io come musicista, posso scegliere, ascoltandoti, se informarmi sulla provenienza di un suono e di un lavoro tramite i tuoi scritti e le tue immagini, ma posso anche scegliere di vivere un tuo disco come puro suono. Non ricordo quale scrittore disse che la montagna è bella perché più sali più selezione fai dell’essere umano. Trovo che la tua musica vada in quella direzione, esprimendosi in quella fascia sonora montana, d’alta quota.

Beh, intanto ti ringrazio, è una definizione che mi raffigura in pieno. Quello che io sto facendo in questi anni, ma che in realtà ho sempre fatto, è il racconto di me stesso, fondamentalmente. Facendolo racconto quello che mi piace, trovandomi perfettamente a mio agio in luoghi naturali e non frequentati, evidentemente. Ci sono stati dei viaggi che mi hanno segnato profondamente l’esistenza, il viaggio in Groenlandia mi ha dato una carica che continuo ad avere ancora oggi. Io assorbo tutte le sensazioni che provo in questi viaggi e poi esplodono, evidentemente. Io scrivo, dico sempre che sono delle fotografie istantanee quelle che faccio, perché mi piace mentre viaggio dare un segno, scrivere ciò che provo, e quella è la fotografia dell’istante.

Una sorta di diario di viaggio, quindi.

Esatto, proprio questo. Voglio cogliere… chi mi vede in viaggio mi vedrà sempre con un taccuino in mano ed una penna, io scrivo, scrivo e non voglio perdere nulla. Poi mi perdo anche quando ci sono dei paesaggi che sono fuori logica umana, mi perdo anch’io, li osservo e rimango lì. Porto tutte queste emozioni dentro di me ed esplodono nel tempo… un viaggio per me non dura le due, tre, quattro settimane che dura nella realtà, dura un anno! Cresce dentro di me e se da una parte ci sono le frasi che scrivo durante, poi c’è la musica che è un’elaborazione di ciò che vivo in quelle situazioni lì. Ci tengo però anche a dire che non sono (e ne ho conosciuti molti in questi anni) un onnivoro di viaggi, uno a cui va bene ogni sorta di viaggio. Io mi vivo un’esperienza particolare portandomela dentro anche un anno, non riuscirei altrimenti, sarebbero troppe emozioni. Fondamentalmente racconto la mia vita, ci sono io in piedi e non riuscirei a fare un disco che non esca da queste esperienze e dalla mia vita, non saprei cosa fare e non avrebbe senso.

Come funzioni? Viaggi e sistematicamente elabori e ti concentri sul viaggio, chiudendolo esprimendoti nel suono, o magari viaggi senza che succeda nulla e c’è un altro spostamento che invece ti smuove?

Può succedere anche questo, può succedere che ci siano dei viaggi che mi danno molto ed altri per i quali devo aspettare affinché mi diano delle emozioni. Bisogna anche dire però che all’inizio (è un’altra delle cose sulle qual rifletto molto) il mio percorso sonoro era completamente diverso, più incentrato sulle relazioni con le altre persone. Ciò che io provavo lo trasformavo in musica, magari anche relazioni sentimentali più o meno fortunate: anche quelle cose mi hanno dato moltissime emozioni. Avevo tracciato un percorso nei primi anni Duemila che era di tutt’altra natura ma era sempre qualcosa che sentivo dentro. Tutto ciò che mi muove dentro, lo butto fuori suonando. Sono quindi fasi diverse ma non così tanto, traducendo io tutto quello che avviene a livello emozionale in musica, parole, immagini, e succede semplicemente quando sono ispirato.

L’ultima tua fatica, che esce per Glacial Movements (e non poteva esserci etichetta più adatta) è titolata Cold As A February Sky. Da che territorio, viaggio, esperienza parte questo disco?

Questo disco riassume tante, tantissime cose per me. Anche molto personali, che magari faccio fatica ad esprimere. Il mese di febbraio non è un mese a caso per me, il freddo di febbraio ha per me un significato importantissimo. Quando perdi delle persone importanti ti rimane dentro qualcosa di forte ed a me è successo proprio nel mese di febbraio. È una cosa che porto avanti anche questa negli anni… quando qualcuno di importante nella mia vita viene a mancare entra profondamente nei miei dischi e la parola febbraio per me ha questo significato. Forse non l’ho detto e non l’ho scritto da nessuna parte, ma è proprio il freddo dentro, un freddo che non è solo geografico ma che è proprio nell’anima. È perfettamente poi abbinato ai paesaggi che ho visitato, un po’ una summa di quel che ho visto in questi anni, perché non solo raccoglie emozioni e sensazioni che ho vissuto, ma anche perché l’ho costruito prevalentemente in un posto che io amo, un posto dove ci sono le mie radici che è Trieste. Lì io ho una casa, la casa di famiglia dove spesso, se posso, mi rinchiudo a comporre. È un luogo dove probabilmente ho visto tante piccole cose quando ero bambino e oggi le racconto. Questi paesaggi ruvidi, queste pietre, ma anche la tanta vegetazione sul carso triestino: è una combinazione che probabilmente da bambino non riuscivo a capire ma la osservavo e mi piaceva. Oggi riesco a capire il perché, anche il clima, che in inverno era gelido con questo vento tagliente… suonare lì raccogliendo le emozioni dei miei viaggi, mi ritrovo in un rifugio trovando un senso in quello che faccio.

Tu sei triestino o padovano, Roberto?

Io sono quella roba lì, sono nato a Padova ma tutta la mia famiglia è di Trieste, che quindi è anche la mia città. Mi ci ritrovo proprio.

A livello sonoro, invece? Mi hai confermato di come la tua musica sia una traduzione della tua vita. A livello di crescita e formazione, che cosa ti ha portato e ti ha magari dato lo slancio per renderti operativo come musicista? Un suono o un artista che ti abbia fatto scattare qualcosa per poi riuscire a trasformarti in Galati.

Beh, decenni di ascolti musicali, fondamentalmente. Io sono un ascoltatore compulsivo, chi mi conosce lo sa, ho sempre gli auricolari addosso e non c’è un minuto dove non ascolti ed ascolti. Negli anni però credo che un filo possiamo tirarlo. Ci sono i grandi nomi che potrei citare: Robert Wyatt e Tim Buckley due capisaldi. Ma al di là dei grandi classici c’è sempre stato questo suono ricorrente che ho amato nei Loop di Robert Hampson e che lui ha poi sviluppato nei Main, e io li ho adorati, quel suono era ciò che mi piaceva. Alcune cose degli Spacemen 3, ho adorato Sonic Boom, c’era quel filone ed ho iniziato lì. Poi sono finito su Loscil, Lawrence English e trovo ci sia un linguaggio molto simile e questo filo conduttore. C’è tanto altro, ma questo mi ha portato qui. Anche Klaus Schulze, i Popol Vuh, io ascolto sempre musica…

Tu suoni dal vivo?

Ho fatto qualche concerto, pochi. Negli ultimi anni soprattutto con Federico Mosconi che è un caro amico con il quale ci siamo conosciuti perché pubbicavamo per la medesima etichetta una decina di anni fa. È bello quando vedi come ci siano delle persone affini con cui condividi gli stessi pensieri e te ne stupisci. Abbiamo anche inciso un disco (Divide, dello scorso anno su Rohs! Records) e suonare con lui è stata una delle cose che mi è venuto più naturale fare. Da solo mi sono esibito solo una volta, mi piacerebbe molto ma forse non è il mio ambito. Potrei riflettere un po’ di più su come propormi dal vivo.

Te lo chiedevo perché ascoltando la tua musica e immaginando gli scritti, le foto, penso possa essere un momento nel quale smuovere realmente qualcosa. Le immagini mentali che si creerebbero sarebbero potenzialmente molto intriganti. Tu hai fatto un discreto numero di dischi… sei un musicista costante e suoni/produci sempre o segui l’ispirazione per poi tacere per dei mesi?

Ti direi entrambe le cose. In passato ero perennemente in fase creativa: suonavo, suonavo, suonavo tantissimo. Pian piano le cose cambiano e devo accettarlo con il passare degli anni, adesso devo essere molto ispirato per suonare e ho la tendenza a selezionare moltissimo ciò che produco. Potrei prendere tante direzioni con ciò che ascolto ma ci sono alcune direzioni che magari mi interessa scoprire di meno, mentre insisto preferibilmente su alcuni aspetti musicali, risultando più lento rispetto al passato nel produrre musica.

L’ultimo album quanto ti ha preso a livello compositivo e di registrazione?

A parte alcuni che sono veramente dei parti (ne ho uno sul quale ho le mani da due anni e continuo a cambiarlo), devo dire che questo è nato così, quasi senza più poi metterci mano. Non mi succede spesso e chi mi conosce mi prende in giro. Figurati che ho ancora in giro un album registrato negli anni Duemila che per me non ha ancora una forma definitiva. Alcuni amici mi dicono di smetterla e di non pensarci più, dipende proprio dei dischi. Alcuni escono perfetti così ed altri prendono del tempo, non nella composizione ma proprio per quello che uno vuole dire. Poi naturalmente una volta che sono usciti poi i ripensamenti sono mille.

Quindi non ti stacchi dal risultato?

Mi stacco e non ascolto, tendenzialmente. A volte non ascolto proprio perché non avrei mai voluto suonasse in quel modo. Poi però ragiono sul fatto che sia un percorso fermarsi troppo su un disco vuol dire non riuscire ad andare avanti. Secondo me è giusto continuare.

Come capisci che il disco è finito? Hai bisogno di un orecchio esterno oppure riesci a capirlo e ad allontanarti per lasciarlo decantare?

Forse agli inizi, diciamo che ci sono state delle vittime sacrificali come mio fratello ed altre persone che si ritrovavano con pile di cd e cassette che gli masterizzavo. Adesso lo so e non tormento più nessuno. Più che altro quando uno si ritrova ad avere 9-10 tracce, del materiale che ritiene importante, bisogna decidersi. Il rischio altrimenti è quello di fondere progetti che nascono in tempi diversi e che sono già altro. Un disco è la fotografia di quel momento e va bene che sia così, più o meno riuscita che sia.

I tuoi dischi sono usciti per diverse etichette. Come ti muovi di norma? Componi il disco per poi andare alla ricerca di un produttore oppure hai già dei contatti per i quali prepari un lavoro differenziato? Ti faccio questa domanda anche a livello di tempistiche: come riesci a gestire la parte più pratica e pragmatica della musica?

È un tema molto particolare, questo. Diciamo che ho un genere, a mio avviso, che vedo sempre in parte compatibile con alcune etichette anche se poi sfuggo ai suoni che loro propongono e finisco per ritrovarmi schiacciato in realtà che forse non sono così aderenti al mio progetto. È un tema delicato e forse faccio un po’ fatica, ma ci sono alcune etichette con quali mi trovo umanamente benissimo e che mi hanno pubblicato lavori che altrove forse non avrebbero avuto sbocchi, anche se alcuni dei miei dischi non hanno i loro suoni, come Databloem. Midira, etichetta stupenda, avevo un’idea precisa e mi sono proposto. A volte si spara a tappeto cercando casa ma bisognerebbe essere cauti, conoscendo il proprio suono ed andando da chi di dovere. Glacial Movements è un’etichetta che amo, sono un loro affezionato cliente e credevo che questo disco avesse un suono pertinente. Non è facile, una volta concluso un lavoro, capire come veicolarlo e pubblicarlo.

Mi sembra che però per Galati questa cosa funzioni. Tu hai esordito in che anno?

Guarda, ci sono stati due periodi. Galati è partito con il secondo blocco, nel 2012, con Floe Edge, un disco che è stato pubblicato da una Net Label, Tree Trunk. Il primo disco che considero come progetto Galati, poi c’è tutto il periodo degli anni Duemila, tutte le autoproduzioni che non hanno un gran valore ma che ho fatto in una grande mole. Non mi sfiorava nemmeno l’idea di proporle ad etichette, io dovevo soltanto suonarle e buttarle fuori.

Quel che succede dopo, l’accoglienza, le critiche, le risposte di pubblico e media ti interessano oppure ne sei distaccato? Tu abbandoni il suo lavoro alla sua vita oppure hai un interesse a capire come il disco viaggia e funziona?

Sono molto onesto, è ovvio che fa contenti se un disco piace. Essendoci tanto di me stesso, con i mezzi che riesco ad utilizzare se viene accolto bene sono felice. Sono consapevole dei miei limiti e se ci sono delle valutazioni fredde sono perfettamente cosciente del fatto che lo sono perché ho dei mezzi che non sono eccelsi, non sono un musicista professionista e non posso definirmi tale. È difficile dire tutto questo: io ho un’altra vita, normale, un lavoro. Questa è una grandissima passione ma ho anche i piedi piantati per terra, avendo una vita normalissima come tutti noi. Osservo i miei dischi dall’esterno, non rendendomi conto che siano cose mie. Mi stupisco di ogni recensione e passaggio radio, questa stessa intervista. Ho una grande passione per la musica e la visibilità ricevuta è un fattore inspiegabile per me.

Come dicevi prima in Galati convivono la figura artistica e la persona lavorativa, in due sfere separate. Ci sono dei punti di incontro fra i mondi?

Ci sono stati momenti di confluenza molto molto rari. Tendenzialmente qualcuno sa ma molti non credo siano al corrente di questo mio lato, anche se oggi con i social non credo sia possibile nascondere una cosa o l’altra. Sono due mondi abbastanza separati ma che raccolgono due delle mie caratteristiche: c’è il mondo più razionale, al quale farei fatica a rinunciare, e quello creativo dove mi sfogo. Due cose che mi tengono in piedi e, se una cedesse, probabilmente crollerei al suolo: c’è un lato razionale in me forte e presente che mi piace ma il tutto è abbastanza separato e non so se questo sia un bene od un male, forse una maggior fusione potrebbe aiutare.

Posso chiederti come opera la tua parte razionale Roberto?

Ha ha, sono responsabile dell’Ufficio Ricerca di un Dipartimento dell’Ateneo di Padova, quindi c’è tanto lavoro contabile e tanta attività concreta. Questo è il mio mondo, nel quale vivo ormai da più di vent’anni!

Siamo quasi al termine, Roberto: per il futuro ci sono già dei passi di Galati programmati?

Sto lavorando a un altro disco, per il quale ho fatto talmente tanti brani che non so come potrà uscire e dovrò selezionare, volendo avere un linguaggio abbastanza preciso. Naturalmente con alcune interferenze, di vari generi che vorrei lasciare. Poi continuare con i miei viaggi e la mia vita, Galati come abbiamo detto non è un progetto musicale ma è la mia vita, nulla di più.