GIACOMO SALIS, Naghol

Naghol è il titolo del primo album in solo di Giacomo Salis, percussionista che porta avanti da tempo la sua ricerca: parte dalle pelli ma non si limita a colpirle perpendicolarmente, sperimenta differenti approcci e vedute, esaltandone gli aspetti di superficie, considerandole un luogo di attriti e risonanze. Afferma di essere interessato ad alcuni aspetti molto specifici, legati alla profondità di un certo tipo di ascolto; micro-suono, il suono continuo e orizzontale (quindi una scelta di campo ben precisa) e la creazione di un suono “elettronico”, che di solito avviene applicando un certo rigore tipico delle strutture di funzionamento delle macchine e di una tradizione, ormai assorbita dai più, tra contemporanea e minimalismo. Le sue stesse parole ci dicono che questo disco si concentra sull’esplorazione di un singolo oggetto attraverso gesti continui e tecniche estese, la tesi che si vuole dimostrare è che ogni oggetto abbia qualcosa di nascosto al suo interno, definito “suono multiplo”.

Se vogliamo inquadrare questo tipo di lavoro, senza voler classificare un gruppo di musicisti che si distinguono per la ricerca di se stessi e di una propria idiosincrasia, dobbiamo guardare all’organizzazione e alla scelta del set-up (che diventa anche una scelta compositiva tra le più importanti), fino alla creazione di proprie regole compositive o improvvisative. Parliamo un attimo di questo approccio alla percussione che i francesi chiamano “percussion frottée”. Ormai ha una sua storia e un numero consistente di artisti che lo adottano, ognuno in modo personale, sia dal punto di vista della musica, sia da quello della performance. Molto spesso si usa una grancassa, penso per le dimensioni che garantiscono ampia risposta nella gamma di frequenze (sia prodotte che filtrate) e un volume acustico notevole, oltre a un certo spazio fisico per disporre oggetti e preparazioni, nonché un’importante presenza fisica e visuale in scena. Come dicevamo, in questo caso il rapporto con la membrana di un tamburo, invece di limitarsi alle forze perpendicolari tipiche del drumming tradizionale (approccio che garantisce il massimo volume per strumenti che nascono per fare musica all’aperto), si estende a indagare il mondo orizzontale: la membrana, dunque, vista come una superficie che viene eccitata e messa in vibrazione tramite lo sfregamento di oggetti, amplificandoli e agendo da filtro, aggiungendo i propri armonici e i propri modi di risonanza. C’è tutta una serie di micro-mondi che oggi possiamo amplificare a piacimento, aprendo numerose possibilità, soprattutto grazie alla tecnologia attuale, che permette di registrare e “ingrandire” dettagli del suono che normalmente arriverebbero quasi solo all’orecchio di chi li produce.

In questo disco Salis usa la grancassa principalmente per appoggiare una molla, sfruttando quindi quel filtraggio di suoni attraverso oggetti che è stato indagato a fondo da David Tudor nei suoi Rainforest. Infatti Tudor in questo suo lavoro essenziale parlava di suoni derivati elettronicamente dalle caratteristiche di risonanza dei materiali fisici (Sounds electronically derived from the resonant characteristics of physical materials). Qui Salis cerca anche di farsi da parte, ritengo, per rendere protagonista l’oggetto e il movimento, una via per sfuggire al proprio ego (il corpo è luogo di verità, il movimento e il corpo sono tanto unici quanto universali e archetipici) e alle scelte spesso dettate da altre dinamiche, più legate alla società e alle varie tradizioni, ma senza ricorrere ai meccanismi esplorati da John Cage.

Naghol contiene una dedica al pittore Emilio Vedova, a me sono anche venute in mente subito le “blackboard paintings” di Cy Twombly, che sono esemplari per comprendere questo approccio performativo, i gesti ripetuti, continui, la mano e la tecnica scavate nei loro elementi basilari. È bello rendere gli oggetti che ci circondano oggetti sonori, liberarne le strutture vibrazionali. Fare incontrare due oggetti o due superfici, seguire un andamento circolare e un’economia di mezzi, provare anche in modo frammentario a stare fuori dall’industria che ci vuole far comprare continuamente nuovi oggetti standardizzati e a senso unico. Si può fare.

In questo tipo di lavori credo che il classico giudizio estetico sia da sospendere il più possibile, non è evidentemente una musica piacevole o coinvolgente nel senso tradizionale quello che Salis vuole ottenere, ma vuole sfiorare qualche principio di verità. Il risultato estetico in questo caso non è il fine ma la conseguenza di un processo innescato. Ognuno deve scavare e cercare la propria chiave di lettura o semplicemente vivere i suoni come qualcosa di materico e semplicemente reale. La coerenza formale, estetica e performativa è quasi garantita qua, non è poco.

Esce in cassetta e in versione digitale per l’etichetta tedesca Grisaille.