FRANCESCO MASSARO & BESTIARIO, Meccanismi Di Volo

Una foglia cadendo
fa il piccolo tonfo
scuote un poco la stella
e una geometria d’universo
si sbilancia negli assi.

Tutto un tratteggio di rette infinite
un pulsare di gradi angolari
nessuna ala distesa fa a meno
e la caduta non è che un’
algebra infinita che va giù
nella cifra, nel rigo. (Mariangela Gualtieri)

Un musicista prezioso. Un disco magnifico e immaginifico, che richiede silenzio e tempo e sa poi ricambiare con scrigni pieni di idee e suggestioni. Francesco Massaro è un jazzista (sax baritono e clarinetto basso) pugliese, qui assieme ai Bestiario (Mariasole De Pascali a piccolo, flauto, flauto alto, Gianni Lenoci a pianoforte, preparato e non, Michele Ciccimarra, batteria, cupa cupa, oggetti sonori, e Adolfo La Volpe e Valerio Daniele a chitarra elettrica, chitarra baritono e live electronics in un paio di tracce).

Meccanismi Di Volo è pubblicato dal collettivo desuonatori, un coordinamento di autoproduzioni per la socializzazione di musica inedita in nuovi contesti di fruizione, così dicono loro stessi. Ed è un disco che merita tutta l’attenzione possibile, perché è poetico senza essere retorico, coraggioso ma non ostico, patafisico e romantico, denso come un haiku e lieve come un racconto di Calvino, appassionante e iperreale come una storia di Cortázar, zuppo dello stesso blues fragile e imprendibile che anima certo Wyatt, circolare come un’immagine di Borges, memore delle rarefazioni di alcune produzioni ECM (su tutti a me è venuto in mente il bel disco del norvegese Christian Wallumrød, A Year From Easter del 2005) senza risultare mai stucchevole, perché mai estetizzante o artefatto, ma sempre vivo, pulsante, necessario, vero.

Si inizia con “Fall”, sparsi accordi di piano tra Paul Bley, il solista di Mark Hollis (del quale presto parleremo diffusamente, sono passati già vent’anni dalla sua pubblicazione) e Debussy, radure, galaverna, giochi di luce, ombre, tanto spazio in cui stare, silenzi perfetti. Davvero siamo vicini a “The Colour Of Spring”, la traccia d’apertura di quel miracolo che fu il disco del leader dei Talk Talk, ma traslato in un ambito jazz, quindi con più libertà armonica. I silenzi però risuonano con lo stesso fare intimo e sacrale anche qua, e subito siamo catturati. Come nella poesia della Gualtieri, un suono in apparenza piccolo scuote geometrie abissali. Dopo tocca a “Paradisea”: un rimestare di percussioni e soffi di fiati, come se qualche remota creatura apparecchiasse una tavola celeste, quasi un tributo a Messiaen e al suo Catalogue des Oiseaux (già splendidamente rivisitato in chiave elettronica da Okapi) in chiave impro. In “Sa Zenti Arrubia” abbiamo un piano austero e sospeso, con suoni preparati, mentre le percussioni promettono una pioggia che non arriverà, e c’è un flauto a guidarci nella bruma: ha un che di popolare e dolente questo canto commosso e delicato (il disco del friulano Glauco Venier, Miniatures, per piano e percussioni, anche questo uscito per ECM, nel 2016 è un altro possibile punto di riferimento), che in alcuni cambi tonali sa davvero scardinare le coriacee difese del cuore. Cuore che soffre perché per la cultura occidentale è difficile imparare l’arte della distanza, abbassare il volume dell’Ego: ecco allora “Esercizio Di Distaccamento”, con la De Pascali in bella evidenza, per un pezzo dalle atmosfere assorte che sanno dello zen a cui ci ha abituato Roscoe Mitchell. “Esercizio Di Distaccamento” sfocia in “Murmuration”, dove i sussurri dei flauti trovano eco negli altri strumenti, sono stormi di uccelli in volo, elegantissimi e anti-geometrici, eppure così ordinati, puliti, nel loro andare. La stessa sensazione di grande naturalezza, di inesorabile, tenace vitalità: è inverno, del resto, e i volatili devono coprire grandi distanze, migrare a sud.

Se “Tecniche Di Ornitomanzia” (gran titolo) è impro senza esserlo in modo didascalico, con bei dialoghi, il pianoforte di Lenoci a guidare le danze, le chitarre elettriche ad aprire altri sipari, il clarinetto basso a scandagliare profondità (cielo, mare e terra, alto e basso si confondono, in questo disco, come nelle migliori poesie), “The Cabinet Of Dr. Stroud” è un brevissimo lampo che ci porta a “Sagittarius Serpentarius”: il baritono in esplorazioni solitarie tra sovratoni ancestrali e rituali magici e raccolti, come un’invocazione alle stelle (una risposta jazz al canto notturno di un pastore errante per l’Asia di Leopardi, forse). Chiude il viaggio “Canis Major”, tesa sulla corda come un acrobata a metà strada tra l’omaggio a Giacinto Scelsi del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza e altri cieli per nominare i quali le nostre mappe descrittive falliscono (a volte sembra quasi una versione jazz di certa elettronica ambientale e postumana, stile Paul Jebanasam). Poi, inaspettato, un tema obliquo ed efficacissimo (Soft Machine, Tortoise?) a ricordarci la presenza umana, che in seguito nuovamente svanisce, in uno spazio vastissimo. Nel pezzo ho citato un paio di volte la ECM, ma non a caso dischi abbastanza marginali nel catalogo dell’etichetta di Manfred Eicher: siamo infatti qui lontani da ogni intento estetizzante o da ogni perfetta posa nordica; si tratta invece di un lavoro in cui risuonano limpidi e netti passione, idealità, poesia, amore.

Nel 2015 Francesco Massaro ha pubblicato, sempre per le autoproduzioni desuonatori e sempre con la medesima formazione, un altro notevole lavoro, Bestiario Marino. Il consiglio è di procurarsi entrambi i dischi, scoprirete così un musicista  dalla voce già molto definita e dalle orecchie apertissime, in grado di inabissarsi nelle profondità marine come di spiccare voli tra continenti reali e immaginari, per regalarci domande fertili, bellissime vertigini e  limpidissima poesia.