FLAVIA MASSIMO, Glitch

La voce del violoncello svincolata dalla struttura stringente del lessico classico per essere utilizzata come sorgente sfaccettata di itinerari atmosferici alimentati dall’attitudine alla ricerca. La visione da cui scaturisce l’esordio solista di Flavia Massimo non è di certo inedita, ma la peculiare declinazione che ne offre merita sicuramente massima attenzione. Formatasi al conservatorio de L’Aquila, la musicista abruzzese vanta un’intensa attività in ambito orchestrale alla quale ha gradualmente affiancato l’interesse per le musiche altre, propensione che l’ha condotta a sperimentare tecniche estese sullo strumento preparato e a indagarne le possibili intersezioni con l’elettronica. Questo percorso parallelo ha portato negli anni alla realizzazione di varie installazioni e sonorizzazioni, trovando ora un primo sbocco discografico affidato all’inglese Audiobulb.

L’idea alla base delle sei composizioni è interamente racchiusa nel titolo dell’album e nell’immagine di copertina: l’errore, l’interferenza accolta quale innesco dell’inatteso capace di squarciare l’anelito alla perfezione e aprire verso nuovi orizzonti. Nella foto come nella pratica sonora tale operazione porta a uno slittamento del dato oggettivo, decostruito e manipolato per assumere una forma nuova con cui espandere un immaginario altrimenti bloccato. Alle trame nitide del violoncello si sommano e stratificano frequenze trasfigurate dello stesso strumento, nonché pulsazioni, live electronics, field recordings, loop e modulazioni vocali.

Nella prima parte del lavoro questo denso intreccio conduce – soprattutto nell’iniziale “Gugaku” – alla formulazione di derive dall’eco siderale, che nello sviluppo al tempo stesso onirico e materico rimandano a quel piccolo capolavoro che è Comet’s Coma di Aaron Martin. Pur mantenendo una profonda coesione, il percorso non si mantiene stabile e la spirale convulsa di sorgenti cangianti da cui ha origine “Data Transfer” lo rivela con forza. Da qui in avanti l’atmosfera scivola verso un paesaggio sonoro più cupo, fatto di movenze lente e battiti. Il tono crepuscolare che ne deriva rimanda alle strutture più inquiete di Julia Kent e nei frangenti più ruvidi al pathos dissonante della Mariel Roberts di “Armament”.

Quello dipinto è un universo indomito, in cui ogni idea musicale trova la giusta collocazione costruendo un viaggio aurale complesso ma sempre coerente, dal quale si evince a pieno quanto potenziale sia in gioco, materia creativa che certamente si lascerà ammirare in ulteriori, ammalianti tracciati elettroacustici.