Cronache dal Multislow

Samin Son - a Capodistria

Un po’ di storia del nuovo virus improvvisativo…

Da un collettivo di improvvisatori di Nancy parte qualche anno fa l’idea di allargare un contagio sotterraneo capace di propagarsi all’infinito nelle forme più varie. Requisiti base: la diffusione dal basso, rifiuto del music-business… e un volume indecente. Alle spalle anni di cultura comunitaria, l’amore per le musiche “difficili” e una testardaggine autarchica ai massimi livelli.

Le spore presto si diffondono, trovando un fertile terreno di coltura nei circuiti più off, conquistando spazi abbandonati, cupole geodetiche e altri mille luoghi temporaneamente adibiti a party music dell’apocalisse. I nomi cambiano in continuazione, ma il sugo è lo stesso: nasce così a Berlino l’esperienza Multiversal, inizialmente una sala prove, poi sigla per diversi concerti in giro per la città e infine, a inizio 2014, una maratona (“Multiversal Marathon”), undici giorni di concerti in diverse location della città.

La commistione tra curiosità pura e auto-generatività infonde forza a un nucleo non individuabile ormai più secondo criteri geografici (né riconducibile a una qualsiasi idea di “direzione artistica”), che decide finalmente di uscire allo scoperto e replicare la maratona in diversi paesi. In poco tempo alla carovana si aggiungono uomini, donne, idee, cavi di rame e un qualche migliaio di chili di soundsystem. Trionfano una certa filosofia comunitarista, lo spirito dell’avventura e il desiderio di espandersi il più possibile con i meccanismi di cui sopra. Inseguendo l’idea di un “ready made tour” a carovana, Multiversal apre il settembre 2015 in Slovenia per poi spingersi fino in Danimarca e Norvegia, e quindi, dopo il ritorno à la maison in quel di Nancy, arriverà a Napoli, poi in Sardegna, a Vienna e infine ad Atene. Dietro avrà lasciato più di diecimila chilometri, centinaia di musicisti coinvolti e qualche cassa vuota di tappi auricolari. Siamo all’incrocio tra performance, impro, rave e presa bene da freak show.

Abbiamo mutato le abitudini auricolari e ora, zaino in spalla, partiamo verso Est.

Multislow. Spore in movimento, a dispetto delle frontiere

Odeon - Lubiana

Partiamo per Lubiana in piena mattinata con un furgone carico di strumenti elettronici, tupperware modificati, chitarre rotte e una suora come compagna di viaggio. Ringraziamo colui che ci ha scelti come testimoni di questo folle tour mandandoci questo segno soprannaturale. Lo veneriamo ascoltando musica pesante nello spartano lettore di audiocassette. Non siamo solo qui come performer e inviati speciali, ma anche come ingranaggi indispensabili nella macchina di Multislow. Se non ci combinassimo e scombinassimo come elettroni caricati di corrente, questo pezzo di Europa rumorosa non esisterebbe. C’è qualcosa dello spirito comunitario delle carovane raver, la dimensione famigliare e un (affannoso) respiro internazionale. Oltretutto è la prima edizione fuori dalle rotte più classiche della Mitteleuropa.

Ingoiamo la strada come si fa con un farmaco. Gli effetti collaterali si manifesteranno a distanza di qualche ora, spinti dal volume insopportabile e dagli usi impropri di vari macchinari.

Lubiana, Radio Student – Day 1 (1° settembre 2015)

Multislow inizia via radio, quasi un tributo ad antenne, fili, saldature, sintonizzazioni precarie e cantine di radioamatori. Siamo negli studi della più antica radio non commerciale autogestita d’Europa.

Si respira un clima misto tra il fanè socialista e l’iper-modernità turbo-capitalista. Mi sembra a tratti di percepire il maresciallo Tito che ci ammonisce puntando il dito attraverso le minuscole finestre dello studentato, obelisco di cemento pensato da un architetto incapace di opzioni differenti dall’angolo retto. Trasmettiamo i live show con un equipaggio in studio misto: on air contemporaneamente a Torino su Radio Blackout in italiano e inglese, a Lubiana in sloveno e pessimo inglese (il nostro) e a Berlino, via feedback  audio (believe it or not).

Aprono Fariello e Tavil. Senza compromessi, in equilibrio su una tensione timbrica puntillistica, suonano come se dovessero riportare uno sciame d’api nell’alveare. Nel tripudio alcolico crescente degli studi commentiamo in diretta radio, trasmettendo “Bloodstains Across Yugoslavia”, i Pekinska Patka e Lepa Brena.

Altri live: Samin Son è un interprete unico al mondo e così le splendide Del_F64.0. Saranno i miei amici più cari per tutta la settimana. L’uno canta, droneggia, gorgoglia, piange, fa sfigurare il mio apparente distacco con una performance toccante. Le altre sono anti-genitalistiche e superspeed-queercore. Qualcosa che mette sul piatto terrore da impasticcamento acuto finito male, androginia, promiscuità e pansessualismo. Difficile capire. Ma perché farlo quando il senso dell’ascolto è così coinvolto? Domande insolute come quelle sulla salsina rossa che condiva il riso. Cosa sarà? E se quell’uomo fosse una spia?

Finiamo alle quattro del mattino sdraiati sulla moquette puzzosa, qualcuno sta ancora cantando. P.Gaiba Riva tortura un clarinetto. Abbiamo appena iniziato. Domani ci sarà anche il “pubblico”.

Lubiana, Rog Squat – Day 2 & 3

Del_F64.0 - a Lubiana

Un’enorme ex fabbrica di biciclette accoglie la carovana tra qualche prurito, cani e moltissimo da fumare. Lubiana ricorda più Lugano che Belgrado. Sembra che il passato lo abbiano voluto cancellare in tutta fretta. Ma anche se hanno spazzato, la polvere è finita sotto il tappeto: la miseria felice e malinconica dei tempi di Tito sembra essere stata disinfettata via da una new thing europea, elegante e biondissima, che chiude gli occhi e ingoia inconsapevole il nuovo european way of life. Basta allontanarsi dalle belle vie del centro per apprendere che anche la Slovenia sta costruendo un muro anti-immigrati al confine con la Croazia. Considero diversamente il senso di nostalgia che ho sentito in certi bar.

La serata inizia con un solo di Marko Karlovec al tenore che si porta via il resto del mio udito. Sembra una tromba bitonale da camion incastrata in una macina per pietre. Ogni tanto barrisce tipo il brontosauro di Jurassic Park se avessero tentato di bollirlo vivo in una pentola troppo piccola. Approccio e personalità niente male. Barcollo qua e là alla ricerca di tappi, ma invano. Nel bagno, buio come la periferia dell’inferno, ci sono decine di lampade Wood. Fanno sembrare il piscio lattiginoso e fosforescente; quale metafora migliore anche per dipingere la (non) musica del Multislow? Sembra piscia normale ma se lo guardi bene ha dei profili di tossica radioluminescenza.

Seguono vari trio e duo, mi perdo qualcosa uscendo ed entrando. La notte slovena è simile a un foglio di lamiera incollato sopra i palazzi crepati. La luna è un pezzo di rottame abbandonato lì accanto. Ad un certo punto si esibisce Craxi Driver, incomprensibile e divertentissima zuppa di suoni arabi, fischi, foto-resistori in calore e aliti di cronaca nera misti ad attentati islamisti ai danni di fabbriche d’insalata in busta nella bassa bresciana.

Gli Odeon suonano come se i primitivi avessero fatto il colpo di stato. Verso la fine di un set tribalista mosso da ignorante sudore ferino si mettono pure a smerigliare una tromba.

Tesissima anche l’esibizione di Burst, praticamente un’audiocassetta con rumori di presse che si è inceppata nel mangianastri.

Chiude Tavil in solo con Beatsz 2.0, poco meno di quindici minuti di batteri(smi) diabolici. Il pavimento trema, le mie meningi pure. Arrivo a letto e sento solo fischi. Normalità 0, rumori 2.

Koper, Inde Squat – Day 4 & 5

Craxi Driver - Lubiana

Dopo tre giorni a Lubiana nella costante altalena tra il semi vagabondaggio e la sinusoide alcolica, anche la mia pelle sa di ex Jugoslavia. Mista a metanolo, acari e malinconia. Vogliamo andarcene a tutti i costi verso il mare di Capodistria. Per strada sogno nudismo, musiche delicate, gamberetti e birre medie ghiacciate. Scoprirò che, ovviamente, non ci sarà niente di tutto questo.

L’umore in compenso è alle stelle. Ascoltiamo in loop una versione in audiocassetta di Carbonara degli Spliff. Sorridiamo al disastro che ci si para davanti: benvenuti all’Inde, dove dai soffitti del secondo “piano” pendono brandelli di lana di roccia bruciata e la copertura in puro eternit sembra colata verso il pavimento in seguito all’attacco di un vorace virus predatore. Lo avrebbe amato Lovecraft se fosse nato nella stagione dei travellers. È un posto perfetto, figlio di un mostro cementifero abbandonato sotto un cavalcavia autostradale. Quale miglior teatro per un combattimento all’ultimo fischio? Questi due giorni aprono l’ultima fase di Multislow, ovverosia quella del mescolone. Ogni artista suonerà con qualcun altro. E il bello è che si saprà all’ultimo con chi, come e cosa. Cerchiamo di rilassarci mangiando banane mentre la notte cala velocissima sul ferrovecchio sbrindellato dell’Inde. Aprono vari sfrizionamenti elettroacustici, seguiti da interferenze radio, drone panici e un sudcoreano che si schiaffeggia cantando una canzone giapponese degli anni Trenta.

Gli Inde-Kebab sono una formazione italio-franco-slovena nata per l’occasione. Trasformano uno squat di provincia in una bolgia techno-hardcore da tachicardia. Il tipo che canta cerca di strozzarsi col microfono, si spoglia, picchia il pavimento. Le foto si sprecano, le domande pure. Non vorrei dirlo, ma trovo sempre più indizi che mi spingono verso la conclusione che questa civiltà tecnologica si stia cibando delle sue stesse parti costitutive, obiettivo dichiarato l’auto-cannibalizzazione. Le musiche qui si nutrono degli elementi “moderni” da parassite e poi li rielaborano usandoli immediatamente riconoscibili ma camuffati oppure distorti, maltrattati, piegati. Caos.

Il giorno successivo mi risveglio mettendo i piedi in una pozza di piscio ai lati del furgone. Questo fatto riaccende la mia memoria, prima che una serie di incidenti che sarebbe triste qui elencare con precisione mi riportino nuovamente nell’oblio alticcio della psiche.

Laidakk, ovvero i Laibach ma senza nazismo evidente. Suonano come la Magneti Marelli oppure l’Italsider o l’Ilva di Taranto. Sono un quintetto ma quattro fanno i medici. Sul tavolo settorio macchinette e percussioni scosse. Il quinto è il paziente. Si dimena vergando una chitarra con assicine di legno. I Pere Ubu industrial dopo qualche siluro chimico? Alla fine di un set spigoloso e densissimo, i quattro si portano via il quinto trascinando lui e la chitarra sul pavimento. Inquietudine e curiosità mi sovrastano, prima che Wutt – in forma di armata delle tenebre math rock schiacciasassi – stritoli il resto delle mie meningi.

Di qui in poi non ricordo più nulla. Se non di aver ingoiato diversi pezzi di un misterioso fungo cresciuto in cattività allevato con spore amorose che si sono rivelate bollosi meccanici movimenti durante il dj-set di chiusura, quando abbiamo fatto l’alba secondo i dettami della moda locale, ovverosia inducendoci le allucinazioni con un pericoloso cocktail di ragazze bellissime ubriache, litri di slivovitz e turbofolk di ignoranza abissale spinto fin oltre le sei del mattino, in uno squat senza acqua nei cessi alla periferia di Capodistria. Bellissimo.

Bistrica, Ob Sotli – Day 6

Burst-Lubiana

Chiudiamo il tour al confine con la Croazia. Anche se non si vedono ancora eserciti, muri, fili spinati, il paesaggio è simile alla Transilvania. Sorridiamo paragonando le carovane dei noisers itineranti agli zombie di George Romero che si mangeranno prima o poi il music-business. Il locale è minuscolo e ha ospitato, tra i tanti, Z’EV, Linda Sharrock, i Talibam…

Tutte le esibizioni della serata, nuovamente proposte nella forma della mischia, hanno rappresentato la stanchezza ma anche la gioia, il coinvolgimento psichedelico e la convinzione profonda dell’unicità di quest’esperienza. I musicisti hanno organizzato e gestito gli eventi nei quali hanno suonato come se stessi ma anche come altri, diversi e infine esausti si sono concessi jam tra il divertito e il cosmico.

Brandelli di considerazioni finali

Oltre ad aver distrutto il mio stomaco, perso peso e sonno, mi sono ingrandito all’idea che le nuove forme di improvvisazione siano passate davanti alle mie orecchie con tanta varietà, coraggio, intuizione. Scambiarsi e non fermarsi mai. Interagire trovando una soluzione buona per tutti, fatta da tutti, per tutti e con tutti. Non ci sono state esibizioni brutte. La tensione forse dell’ignoto ha sopraffatto gli interpreti come una neve magica. Il buio dopo questa nota, ovvero l’horror vacui del “cosa succederà adesso?” è stato respinto dalla consapevolezza di essere in un qui ed ora socio-economico-musicale nuovamente caratterizzante di un’epoca. Che questa sia la direzione, quella di abolire le consuete grammatiche della fruizione musicale, anche rimuovendo elementi fissi tipo “la band”, il “pubblico” eccetera, è un’ipotesi balenata in tutti i momenti di dormiveglia verso casa.

Tra meno di venti giorni si parte per il Multireaction a Nancy, la maison edition. Io ci sarò. Non posso perdermi la cupola geodetica e almeno cinque musicisti di cui sono già un amico. State sintonizzati sul segnale magnetico.

Puntate il microscopio su queste spore in movimento. Ad ottobre saremo a Napoli!

Multidom, La Grande Maison edition – Nancy, 26-29 settembre 2015

La carovana muove verso la Francia, nella città dove tutto è iniziato con l’esperienza RPT, ovvero Reaction Power Trio. Se leggete questa rivista non devo aggiungere altro.

La pianura francese è notoriamente bella e insieme noiosa, sarà lo specchio convesso nel quale riflettere l’opposto di questo Multidom, dove è successo praticamente di tutto.

26 settembre, Nancy – La Plantation

Anti Viranta a Charmes-Nancy

In un locale che sembra uscito da un film sul colonialismo francese all’isola della Reunion, ci si ritrova appassionatamente in un gruppo piuttosto folto tra pubblico, curiosi, passanti e musicisti per riaprire la follia di questo festival itinerante, un set dopo l’altro, neanche fosse il Roland Garros delle musiche estreme. Noi veniamo da una nottata dura a Mâcon, dove si è bevuto, ballato e abbiamo sfidato Francisco in un inseguimento motociclistico per le strade dello Champagne.

A ripescare nella mia memoria a mollo nel Picon lo show di Özun Usta e Berke Can Ozcan, scure anime turche a rimestare antichi ritmi, nuove pulsazioni e un suono acidissimo di rhodes.

Una performance fischiosa e sintetica di Oazo Rar ai limiti della mia tolleranza segue ad un trio free jazz ordinatissimo ma micidiale con Anti Viranta, contrabbassista dalle mani d’acciaio e occhi di vero ghiaccio finlandese. Psichedelica il giusto la performance di Garage Olimpo, altra cellula italiana saldamente impiantata nel virus Multiversal.

Menzione speciale della serata, neanche fosse un presuntuoso premio della critica, va agli svizzeri Realismus, intruglio free-scat-punk con bave elettroacustiche e una voce lucida come acciaio, quella di Rea Dubach della quale sicuramente torneremo a parlare. Si muovono eleganti ma marziali, con mictro-tonalità e incroci che rendono questa musica insieme guizzante e materica. In conclusione Amenhorrea, indigeno di Nancy ma frequentemente in combinazione con le pelli percosse di Utku Tavil con Ameneatsz. Power chords oscuri come soffi di una bestia medievale suonati a lentezza spasmodica, con una precisione nell’uso del suono che ho sentito tutta prendermi in faccia come un treno. Ascolto l’esibizione a occhi chiusi, lasciando che le frequenze basse sfreghino la mia pancia, vedo candele accese nella nebbia, intrugli di streghe ed io corro nella foresta della Marna. Quando arriva la fine, il silenzio coglie di sorpresa persino il pubblico, completamente immerso in una trance stregonesca.

Finisce a birre Leffe in uno splendido palazzo cinquecentesco adibito a residenza per musicisti in transito. Domani è un altro fischio.

Nancy, Squat 103 – Day 2

Adagiato sulla colline che guardano la Mosella, lo Squat 103 è un set da “profondo rosso”, inserito perfettamente nella decadenza liberty di una villa abbandonata d’inizio secolo. La cornice potrebbe inquietare già da sola, ma come se non bastasse spira un vento gelido, e mentre continuo a balbettare frasi in francese che incontrano solo pietà, arriva l’ora dei concerti. Così ho modo di ascoltare – e vedere – William Nurdin, performer, musicista, sperimentatore. Il classico nerd timido dal quale ti puoi aspettare di tutto, e in effetti è così. Alle spalle un pericoloso curriculum da sperimentatore delle possibilità della voce, dei nastri e delle frequenze, con frequentazioni degli antri più selvaggi delle musiche estreme. Dal bancone del bar, attraverso le fessure lasciate libere dal folto pubblico, vedo un trio “jazz” con tromba, oggetti preparati e nastri Revox maltrattati altalenare elettroacustica infernale à la Pierre Schaeffer, il ballet mécanique e gli Space Elements di Rafael Toral. Immaginateli però nella villa decadente e immaginate Nurdin con i nastri che produce suoni apocalittici con scie che durano secondi interi e contemporaneamente un coniglio meccanico di peluche si aggira per il pubblico… Tra le sue collaborazioni e le mille follie dopo il concerto mi parla candidamente del suo amico Jojo Hiroshige di Hijokaidan, coinvolto in un progetto suonato con richiami per anatre. Ricollego tutti i fili e mi sento felice, al centro di una cospirazione ormai mondiale del rumore.

Molte altre esibizioni seguono ma le perdo tutte chiacchierando di Giappone, circuiteria modificata e funzionamento della macchina della verità, mentre l’alba si affaccia nuovamente dietro la villa inquietante. Nel lettore mp3 sento la sinfonia per un uomo solo di Pierre Henry cercando invano di addormentarmi.

Charmes, Order In Disorder Squat – Day 3

Siamo in un posto magico. L’Order In Disorder è una fabbrica abbandonata di tessuti grande circa come il quartiere dove vivo. Tutto trasuda ancora di manifattura anni Cinquanta della provincia francese, compresi registri di carico e scarico, travi pericolanti e immensi spazi deserti. Sono qui per suonare ma soprattutto per una performance. Sfortunatamente complici le birre eccessivamente fredde e il gran numero di aperture nel suolo, quasi rischio di perdere una gamba appena arrivato, intrappolandomi da solo in un tombino di scolo rugginoso. Anni di rave non mi sono serviti a nulla.

Per un pelo arrivo in tempo per godermi l’ennesimo pezzo forte di questa edizione, cioè il compositore e performer franco-canadese Jean Francoise La Porte. Collaboratore di Pierre Bastien, è l’uomo delle costruzioni impossibili, della materia che diventa suono come se passasse per uno specchio magico. Per l’occasione fa sedere il pubblico ai lati di un enorme spazio vuoto. Sale su un pericoloso seggio in legno ed inizia a roteare un cilindro preparato per l’occasione. Rituel pour une canette sifflant, perdonate il mio francese: l’aria che vi filtra attraverso, e l’eco naturale del posto, generano un’onda sonora in continua costruzione, tipo quella di un organo ad che fa overtones come se la natura gli offrisse migliaia di diffusori Leslie messi in ogni direzione, incuranti della prospettiva geometrica. A ogni rotazione il suono cambia e si deforma, pur mantenendo una intonazione psicotropica. Sembra un disco dei Coil senza elettronica, o Terry Riley suonato sull’Himalaya, o tutti e due insieme ma con un vento fortissimo che spira in un corridoio d’acciaio. Tutto senza corrente o tecnica musicale propriamente intesa. Mi lascia con interrogativi notevoli sulla soglia di uno stupore ed un’ammirazione immensa per un personaggio che, oltretutto, è pure simpaticissimo.

Multislow - chitarre insanguinate

In seguito una ballerina si struscia su di una musica in feedback, Detesta suona un ecatofono e quasi lo spacca, io spruzzo di sangue la mia chitarra in un testa a testa mortale con Tavil. Ah, non vi ho detto che per aggiungere pathos e adrenalina alle nove di sera era tutto finito, il pubblico intontito abbandonava lo spazio e il vostro inviato raccattava le sue cose cadute accidentalmente nella monnezza. Tornando, fantastico sull’eventuale prossima fine del music-business, intaccato alla base da esperienze come queste, antichi virus di autocrazia spinti a riprodursi e a prosperare famelici devastando ogni traccia del passato.

Sconosciuto night club – Day 3

È la notte dei francesi. Non poteva che finire in un ambiguo night alle spalle della stazione ferroviaria, due rampe di scale sottoterra. Clodo Misere (ne avevamo già parlato) suona in abito da sposa una specie di grindcore jazz sotto speed, come i Naked City ma ulteriormente liofilizzati in una forma duo. Sono capaci di fare dieci/quindici cambi di tempo al minuto mantenendosi sempre sul confine tra precisione estrema e sprazzi di follia. D’altronde vengono dall’esperienza collettiva di Les Conferences Bunker, dove le medesime soluzioni vengono però estremizzate da un elemento orchestrale con tanto di direttore. Devastanti e precisissimi, sono tra gli iniziatori di RPT e di tutto questo insensato mio ciondolare per l’Europa con una corona di tappi auricolari come collana.

Il marchio di fabbrica è evidentemente local: tanto devastanti quanto i fratelli Phython vs Cobra che puoi anche leggere Pitbull vs Dobermann. Anche qui si gioca testa a testa in equilibrio tra il free-jazz stiracchiato e soluzioni vicine al math rock, con la chitarra incendiaria ma semplicissima ed efficace.

Ritorniamo verso casa, ma per meno di un giorno. Stiamo per partire alla volta di Napoli, dove l’impro e la filosofia comunitaria si dovranno scontrare con un traffico insopportabile, il fritto e l’assenza assoluta di regole. Una vera sfida.

Napoli 1-5 Ottobre, Multiversale

Già che ci siamo facciamo altre dodici ore di furgone. Questa volta a Napoli ci saranno solo mischie furibonde con interpreti improbabili, ed ore e ore ad arrampicare via Salvator Rosa verso il Vomero. I miei ricordi sono rinchiusi in un quadrato tra Piazza Dante ed il quartiere Arenella, dove ho pensato più volte che sarei andato incontro ad una transustanziazione. Mi vedevo trasformarmi in un pedale, in particolare un bel ring modulator. Muovendo le mani sui capezzoli cambiavo un’onda quadra in tonda, alzavo il pitch, aumentavo il feedback. Questo cammino di un mese è stato intensissimo. Ha racchiuso in sé tutta la musica sperimentale che normalmente non sarei riuscito a sentire e vedere in un anno. Non senza difficoltà abbiamo superato le ristrettezze economiche, le necessità personali e gli eventuali scazzi. Si è formata una famiglia rumorosa e aperta con spazi per inserire qualsiasi idea musicale possibile. Fare questa esperienza e poterla raccontare è un po’ come mangiare una pizza fritta: sai che è buonissima ma devi superare la diffidenza iniziale per tutto quell’olio. Che d’altra parte è quello per cui l’hai presa. O no?

Zedde-Horvath - Capodistria