Fabio Perletta e l’ascolto profondo

Fabio Perletta, foto di Anna Tsurubayashi

Silenzio, spazio, relazione. Sono solo alcune delle invarianti su cui si fonda l’attività di Fabio Perletta in qualità di sound artist e di curatore della piccola quanto preziosa label 901 Editions, nata nel 2018 dalle ceneri di Farmacia901. A ridosso della pubblicazione di Nessun Legame Con La Polvere, che lo vede esordire per la prestigiosa Room40 di Lawrence English, proviamo attraverso le sue parole ad immergerci in un immaginario fatto di astrazione e matericità, votato ad indagare il mistero dell’essere utilizzando le diverse forme del suono.

“L’ascolto profondo è uno stile di vita. Rappresenta uno stato di consapevolezza superiore e ti collega a tutto ciò che esiste”. Trovo che esista una non trascurabile affinità tra la tua ricerca artistica e le parole di Pauline Oliveros, una connessione che pone al centro il modo di assorbire i suoni e di riproporli in sequenze che trascendono la razionalità.

Fabio Perletta: Grazie, questo mi fa onore, il lavoro di Pauline Oliveros è a dir poco straordinario perché pone al centro del dialogo l’essere umano e le sue risorse nascoste. Ci sono pochissime forme d’arte che cercano una voce nelle nostre singolari profondità, scavando negli anfratti più bui del nostro vissuto: molte ci si avvicinano, altre lo fanno in maniera banale. Emozionare non basta, anzi, oggi lo trovo persino scontato. Le parole sono trasformazione, sublimazione e in tutto questo non c’è niente di felice, c’è invece la storia di una grande sofferenza, lo sforzo dell’uomo che dall’alba dei tempi cerca di dare una spiegazione a quanto lo circonda. Nel booklet di Nessun Legame Con La Polvere ho raccolto alcuni pensieri sul suono, riflessioni sul mio processo compositivo e su come percepisco il suono, oltre che a rivelazioni (anche per me!) sul mio vissuto. Al quinto mese di gravidanza mia madre ha avuto una minaccia d’aborto, un fatto apparentemente comune e piuttosto ordinario. In realtà questo evento, che probabilmente è durato qualche secondo, nasconde una quantità di implicazioni impressionante, una rete di strategie che la vita mette in atto per cercare di salvarsi. Da un punto di vista chimico, l’allarme di morte stimola i “recettori dell’esclusione” e questo si traduce in una produzione importante di noradrenalina, il neurotrasmettitore secreto dal locus ceruleus a seguito di uno stress psico-fisico; questo “fiume” in piena ha lo scopo di iper-attivare il corpo per cercare una forma di salvezza dall’evento traumatico. Questo “segno inciso”, per dirla con lo psichiatra e analista reichiano Genovino Ferri, si genera nella sfera pre-soggettiva ed è una traccia indelebile che determina in futuro il nostro modo di essere. È un’intelligenza nascosta ma di una forza inaudita che racchiude milioni di anni di evoluzione, prove, errori, cooperazioni, tentativi di assicurare la conservazione della vita sulla terra. Noi esseri umani abbiamo imparato a “sentire”, percepire e interiorizzare, rielaborare, sedimentare, ricordare, cancellare, frammentare. Se non avessi ascoltato profondamente, me stesso e gli altri, se non avessi curiosato, approfondito e provato a guardare le cose da prospettive inusuali, anche quelle più bizzarre, non avrei mai potuto capire che in fondo la vita mi ha fatto un grande regalo facendomi sentire in pericolo. Dal suo conto c’è una grande generosità e da un punto di vista evoluzionistico la ragione è filo-ontogenetica: in condizioni di stress i batteri rilasciano materiale genetico trasferendolo a un altro organismo che non appartiene alla loro progenie, modificando parte del DNA del ricevente per permettergli di adattarsi a nuovi ambienti e garantirgli la sopravvivenza (questo processo si chiama trasferimento genico orizzontale); è una “dimensione di allarme della specie, è l’intelligenza della vita in atto, la comunicazione all’altro è una garanzia per se stessi e per l’altro” ribadisce Genovino Ferri. Con il suo potenziale comunicativo, il suono può essere il punto di connessione tra la nostra umanità e le forze invisibili che ci guidano in modi che non comprendiamo. Può aiutarci a superare la comprensione ordinaria della nostra esistenza. A cosa mi è servita l’arte? A decifrare questo codice estremamente criptico, ma in fondo così chiaro e spietato. La cosa ancor più divertente è che questo ora lo leggo, lo racconto, ma per anni è stato un automatismo, come lo è forse il 90% di quello che facciamo e di cui abbiamo l’illusione di controllo. Lo dico con una profondissima franchezza e mi piacerebbe anche esprimere un fatto: in questo senso l’arte non ha nulla di speciale se fatta con onestà, bensì è una necessità, è il solo e unico modo che io ho – permettimi di affermare questo – di offrire al prossimo una prospettiva, forse di “aiutarlo”, condividendo materiale sonoro e raccontando il mio vissuto in relazione ad esso.

Fai un nuovo tour in Giappone, terra a cui sei molto legato. Come nasce la fascinazione per la cultura orientale e come ha cambiato il tuo modo di pensare il suono?

La profonda fascinazione per questa terra affonda negli anni dell’infanzia con i cartoni animati e rinasce definitivamente a Roma durante gli anni dell’università con l’interesse per il tè e la musica (frequentavo Disfunzioni Musicali e poi Transmission). Al tempo amavo molto Keiji Haino (non tutto a dire il vero) e i Fushitsusha, i Les Rallizes Denudes, Cornelius, Tetsu Inoue. Studiavo cinema all’università e mi piacevano i film di Takeshi Kitano, Shinya Tsukamoto, Shōhei Imamura, Seijun Suzuki e naturalmente anche i capolavori di Kenji Mizoguchi, Yasujirō Ozu e Akira Kurosawa, “Ghost in the Shell”… Durante un esame di teatro scoprii il Nō e poi in seguito Kazuo Ohno e il butoh, il movimento Gutai. Più cercavo e più mi immergevo… Sono stato letteralmente travolto. Mi perdevo cercando informazioni sulla lingua, sulla calligrafia, ma all’epoca YouTube era appena nato e non c’erano molte informazioni sul Giappone. Era molto affascinante immaginare una cultura così lontana e profondamente distante dalla nostra. Quello che mi ha sempre colpito della cultura giapponese è innanzitutto la profonda diversità del modo di pensare, la minuziosa attenzione ai dettagli, l’ossessiva e (spesso) monotematica dedizione alle cose, la capacità di usare pochissimi elementi senza risultare banali. Nonostante ora il Giappone sia un paese in cui il capitalismo è dilagante e di certo le stranezze non mancano (il ragazzo del palo elettrico di Tsukamoto, folle a Shibuya che mostrano i cartelli “abbraccio libero”, stanze dove si va a piangere, gente che chiede al governo di sposarsi con i manga perché non più interessati alla tridimensionalità), c’è ancora un tempo che si allinea al nostro sentire, non accelerato, nevrotico o disfunzionale. Mi fa sentire in ordine sapere che esiste ancora un posto nel mondo biologicamente in linea con il nostro tempo interiore. Impiegare anche un’ora per preparare una tazza di tè credo che abbia ancora un valore molto profondo. C’è un grande rispetto per le cose, le persone si prendono cura di te e i modi di fare sono sempre gentili. Amo stare nel delirio di Tokyo ma anche perdermi passeggiando per le vie strette dei quartieri residenziali. Credo che questi contrasti siano molto evidenti nelle mie composizioni: tensioni e rilasci, caos e ordine, rallentamenti e accelerazioni. Tornando a Keiji Haino, la cosa che mi piace di più della sua musica è proprio questa capacità di sfondarti le orecchie con 30 minuti di harsh noise e poi di aprirti il cuore con un accordo minore e angelico di chitarra pulita. Sono la stessa cosa per me e seppur in maniera diversa ho interiorizzato molto questo approccio.

I concetti di spazio e relazione sono essenziali nella tua visione e ciò ti ha avvicinato naturalmente all’architettura. Si tratta di due forme artistiche connesse da sempre, ma in che modo si intersecano nella tua pratica?

L’incontro con il lavoro di Tadao Ando, grazie all’amico Luigi Turra, è stato fondamentale per me. Del suo lavoro mi affascina molto il dialogo costante e mutevole che c’è fra i volumi e la natura fuori dagli spazi: la luce che si irradia all’interno non ha la sola funzione di illuminare ma anche di generare senso, stupore, mistero. In questo senso l’architettura non è solo un luogo funzionale ma un apparato con una valenza ascetica o, per usare un temine meno austero, interiore o metafisico. Cerco questo dal suono e dalla musica: uno spazio vuoto dove poter inscenare una drammaturgia, non lineare ma organica, facendo coesistere luci e ombre, saturazioni e vuoti, sentieri impervi e flussi rettilinei, che poi è davvero come la vita si mostra, se dovessi esprimere un pensiero su di essa in poche righe. Per me è importante star dentro questa forza inarrestabile di tensioni che si intrecciano, un dentro che è anche fuori e viceversa, un’ombra che soccombe ad una luce. È così che il suono si manifesta.

Le tue composizioni non rincorrono una piena definizione, tu stesso definisci il processo di produzione aperto e la materia risultante non conclusa.  Quanto incide il concetto di impermanenza su tale scelta?

Nell’universo che conosciamo, costantemente tutto cambia, vibra, si trasforma, muore, rinasce in altre forme, collide con altre cose, annichilisce, si fonde con altro. L’illusione della “definizione” è un fatto legato alla scala in cui si osserva il mondo: un tavolo sembra fermo, immobile ma questo non è affatto vero; a livello microscopico l’aria e i microrganismi che interagiscono su di esso ne cambiano i connotati che probabilmente saranno visibili tra centinaia di anni. Aver compreso questo fatto mi ha fatto sentire molto più parte delle cose, senza un divario netto tra me e le cose che mi circondano. Qualche giorno fa riflettevo con Miwa Okuno e Yohei Fujishiro dei Nakice (con cui ho collaborato a Kyoto il 17 Novembre) sul senso del corpo come barriera e sulla possibilità di annullare questo limite con il suono, facendo sì che confluisca all’interno della performance non come una cosa tra le tante ma come prisma che riflette, rimanda, assorbe e si situa in un continuum spazio-temporale senza divisioni. È chiaramente una comodità vedere le cose come unità a sé stanti, ma non è affatto così, o meglio, lo è da un punto di vista. Non sto negando l’esistenza dei corpi e delle cose, ma solo immaginando relazioni invisibili tra di esse. Le mie composizioni si nutrono delle letture che ho fatto negli ultimi anni, soprattutto di evoluzionismo, coscienza e relazioni fungine. L’esperienza che facciamo del suono non ha confini spazio-temporali precisi, non vedo perché dovrebbero averli i miei suoni. La transitorietà è un fatto insito alla vita e la mia musica vive in essa e si nutre delle sue regole. Mi piace immaginare le mie composizioni come entità organiche, mutevoli, vive. Lavorando in maniera modulare e assemblando frammenti in maniera piuttosto casuale, posso sempre riconfigurare la composizione in nuovi setting. Mi dà molta libertà questa metodologia, non riuscirei ad immaginare le mie composizioni concluse, faccio infatti fatica anche a ricordarle. Da un punto di vista meramente empirico è chiaro che quello che si ascolta è concluso, ma ciò che invece rende la mia pratica interessante (per me) è lo stare nella possibilità, come il gatto di Schrödinger, sapere che quella stessa materia è solo una maniera temporanea con cui ho cristallizzato un processo e che sicuramente in un altro momento avrebbe avuto un’altra forma poiché vive in costante sovrapposizione con altre. Come direbbe Romeo Castellucci, “sono un connettore che lascia passare immagini che esistono già, io non invento nulla, non ho mai inventato nulla, le immagini sono di un numero finito nel mondo, non si inventa nulla”. Sul fatto che anche i suoni sono finiti ho forse dei dubbi, ma sicuramente l’atto creativo si situa sul punto di connessione tra fatti, cose, intuizioni, rielaborazioni.

Nelle note di copertina del nuovo disco ci dici che il titolo deriva da quello di una tua scultura realizzata per il progetto “I Fiori Non Vedono Mai I Propri Semi”, installazione priva di commento sonoro. In che modo le due opere sono connesse? Possiamo pensare che le risonanze – dalla consistenza profondamente tattile, espressa bene dalla foto di copertina – siano state estratte dallo spirito di quella materia?

Nel 2020 ho realizzato una serie di opere di varia natura – installazioni in natura, performance che prevedevano la partecipazione in remoto delle persone e progetti online, sempre di natura partecipativa – nell’ambito di Aequusol MMXX, un programma di residenze curate da Pollinaria. Il progetto di residenza è nato dalla frase “I fiori non vedono mai i propri semi”, sezionata in quattro parti, ciascuna delle quali assegnata ai due solstizi ed equinozi in cui sono state presentate le opere, per un totale di quattro residenze e quattro opere individuali o apparentemente sconnesse tra loro ma afferenti al tema circolare della frase, che puoi leggere anche al contrario: “I semi non vedono mai i propri fiori”. Ho esplorato dunque il tema della circolarità della natura e del posizionamento dell’uomo in questo processo immutabile. “Nessun Legame con la Polvere” è un racconto Zen e una piccola scultura senza suono facente parte di un’installazione presentata nella foresta selvaggia a Pollinaria: ciascuna delle dieci sculture era adagiata su un foglio di carta di riso, a sua volta appoggiato su di un friscolo (un disco di vimini che si usa per la spremitura delle olive); le sculture, che ho chiamato “eventi lunghissimi” non erano accompagnate da alcun suono ma ciascun oggetto scelto portava la traccia del suono inscritto o meglio inciso in esso: la forma di un sasso scolpita da pioggia, vento è un fatto sonoro estinto ma visibile, intrinseco all’oggetto stesso. L’ispirazione viene dal libro di Carlo Rovelli “L’ordine del tempo”, in cui l‘autore fornisce una visione delle cose come eventi in continua trasformazione, piuttosto che come oggetti statici. La scultura in questione è una scatola di legno con fragili matasse di polvere e altri piccolissimi oggetti e residui trovata nel deposito del museo dell’olio di Pollinaria, a Loreto Aprutino. La foto della copertina è di Naoki Iida, il proprietario dell’Hako Cafe a Toride nella prefettura di Chiba, un bar, negozio di antiquariato e music venue molto affascinante dove mi esibirò a Dicembre. La foto mi ha subito colpito poiché c’è un contesto non facilmente leggibile, con un campo sfocato, un soggetto in primo piano materico e imperfetto che porta i segni del tempo e un foro che suggerisce uno spazio ignoto. La foto rappresenta molto bene i suoni di questo disco e in particolare i contrasti dei vuoti/pieni, silenzi/rumori. L’origine ignota della polvere nella scatola di Aequusol mi fa proprio pensare alla nostra esistenza effimera, alla temporalità del nostro passaggio sulla terra. Non avere legami con la polvere è un paradosso irrisolvibile. Come si può mai avere un legame con la polvere? Apparentemente non ha senso, eppure quello che mi preme da sempre è imparare a stare in questo equilibrio precario, avere legami con cose che si sfaldano, mutano e vanno via per sempre. “Nessun Legame con la Polvere” è un’antifrasi, i nostri legami si fondano proprio su questa poetica, dolorosa caducità e l’obiettivo è quello di trasformare tutto questo in energia positiva, vitale. La polvere ci ha generati, sembra che veniamo proprio dalle particelle dello spazio interstellare e forse lì torneremo. La polvere nella scatola che tempo ha? Cos’era prima o forse non era nulla? Cosa sarà in futuro?

Nessun Legame Con La Polvere esce per Room40. Come sei approdato alla corte di Lawrence English?

Negli ultimi anni c’era il sentore da parte di Lawrence di fare qualcosa insieme. Chiaramente non è semplice pubblicare un album su Room40 per via della fittissima programmazione, ma Lawrence è una persona molto generosa e capace di grande supporto, un ascoltatore attento e curioso che ha accolto la mia proposta di pubblicazione con entusiasmo. Sono molto felice che sia uscito per Room40, un’etichetta che seguo da molti anni e di cui possiedo molti titoli, alcuni dei quali sono dei capisaldi per me.

Molteplici sono le collaborazioni attivate negli anni e tanta l’energia profusa nel gestire Farmacia901 prima e 901 Editions poi. Come e quanto di ciò che hai assorbito si è riversato in questo nuovo album?

Non so dirti esattamente in che modo, ma tutto quello che facciamo ha un’influenza su di noi e aver scambiato così tanto materiale, fisico e intellettuale, con artisti da tutto il mondo ha inevitabilmente arricchito non solo la mia conoscenza della musica e della sound art, ma anche delle intenzioni che si celano dietro certe scelte artistiche. Dico sempre che l’arte è la maniera più nobile di conoscere le persone e se c’è una ragione per cui sono intenzionato a continuare una è sicuramente questa. Nel processo di scrittura di Nessun Legame Con La Polvere è emerso in maniera molto evidente il senso di appartenenza ad altri esseri umani, l’importanza degli incontri con gli artisti e il dialogo con essi. Questo album è dedicato ai cari e compianti amici Andrea Gabriele e Luigi Pagliarini, alla loro straordinaria capacità di generare relazioni umane tra le persone, ma anche alla loro prematura scomparsa. Il tempo trascorso con Luigi, innovatore nel campo dell’arte elettronica e assoluto visionario, mi ha dato molto, soprattutto negli ultimi anni in cui il suo pensiero si è spostato verso un’ecologia della mente, mettendo in discussione anche l’intelligenza artificiale, di cui è stato un indiscusso pioniere a partire dagli anni ’90. Luigi aveva una lucidità nell’immaginare il nostro futuro che non ho ancora trovato in nessun altro e guarda caso il centro della sua ricerca rimaneva sempre l’uomo.

A proposito di sinergie, credo che tra le più importanti si possa collocare quella attivata con Steve Roden, pioniere e ricercatore infaticabile recentemente scomparso. Quali sono i principali insegnamenti che ti ha lasciato?

Steve è una delle persone più umili e oneste che io abbia mai incontrato, lontano dalle mode, dai capricci dell’establishment musicale. Nel 2017 suonammo allo Human Resources a Los Angeles per una serata organizzata da Yann Novak e Steve si presentò con un sistema modulare senza neanche un cavo collegato, con l’intenzione di creare la patch mentre suonava. Il risultato non fu eccezionale e a fine concerto venne verso di me dicendo “è stato terribile!” con una grassa risata. Qualche giorno dopo ci incontrammo di nuovo a Pasadena per pranzo, prima di trascorrere un pomeriggio a casa sua dove mi mostrò i disegni per il suo lavoro per 901, e tra un discorso e l’altro mi disse “vedi, essere vulnerabili significa condividere”. In quel momento mi fu chiaro quanto fosse importante per lui l’aspetto umano che si nasconde nel processo di fare arte, pur rischiando di non piacere o di fare una figura mediocre. Steve era un sincero sperimentatore, con un’insaziabile voglia di conoscere, scoprire e generare nuove connessioni tra le cose. Gli devo molto e come per tanti, il suo lavoro è di grande ispirazione.

Occuparsi di suoni altri in Italia non è certo ottimale. Alla luce delle tue esperienze all’estero, cosa manca e come potrebbe migliorare la situazione?

La cultura è spesso scomoda e quello che non c’è davvero è il supporto e la continuità da parte delle istituzioni. C’è anche poca educazione da parte di chi gestisce i fondi e tanta inutile burocrazia, spesso mi sono sentito imbarazzato a stabilire un dialogo con funzionari del settore. Ad ogni modo qualcosa c’è e bisogna imparare a muoversi anche autonomamente. Ci sono tante piccole realtà, spazi d’arte, residenze e etichette che propongono cose di spessore, purtroppo con qualche difficoltà… In fondo non è tutto oro quel che luccica all’estero e onestamente a volte ho sentito l’odore di arte di stato e questo equivale alla morte dell’arte. In Europa ci sono vari paesi in cui lo stato offre dei sussidi per chi vive di sola arte ma in Italia forse non c’è la necessità da un punto di vista economico. Ricordo un’intervista a Giorgio Mortari, il direttore artistico di Dissonanze, in cui gli si chiedeva se fosse possibile vivere di arte in Italia; la risposta fu negativa, nella realtà dei fatti l’Italia campa di rendita grazie al turismo storico e religioso e quindi non c’è bisogno di supportare la sperimentazione. È una visione ottusa chiaramente, ma se da una parte ne soffriamo è anche vero che la condizione che descrivo genera voglia di fare, almeno per quanto mi riguarda.

Cosa prevede il tuo futuro prossimo? 

Dopo il tour in Giappone mi piacerebbe girare un po’ in Italia e in Europa per presentare questi ultimi suoni e poi dedicarmi agli aspetti più installativi e performativi, relazionali del mio lavoro; ho pubblicato tanta musica negli ultimi anni e forse è il momento di fermarmi per un po’. Ma chiaramente non sono io a deciderlo, chissà cosa farà questo complesso agglomerato di materia di cui sono fatto. In un’intervista mai pubblicata Luigi Pagliarini diceva: “il mio unico obiettivo è ridurre drasticamente il divario fra ciò che decide il mio io biologico e la mia coscienza”. In fondo l’essere maturi si può davvero racchiudere in questo pensiero. E io non lo sono ancora.