ANDREA MORELLI – SILVIA BELFIORE, Diffrazione

Essere significa lasciar-essere: non sempre, difatti, è necessario trasformare, talvolta è sufficiente assecondare per ottenere palpiti e vita da materiale preesistente, storicizzato, esemplare, ed è quello che accade con questo Diffrazione. Al cospetto della sacralità paradigmatica di Erik Satie e Duke Ellington, il duo in questione si volge con circospezione e tatto, lasciando invariato tutto quello che si può (forme, carattere, intenzione, fraseggio), così che l’ascoltatore non incapperà in nessuna forzatura stilistica, in nessuna prova di forza, né in uno scavo profondo della partitura, ma si sentirà partecipe di quei modi della grazia che rispondono ai nomi di moderazione, contemplazione, adesione.  Con il duo Morelli/Belfiore le traiettorie musicali possono deviare anche solo minimamente dal percorso stabilito per far sì che avvenga comunque un rinnovato incontro con il già-noto. La curva dell’intensità del duo si attesta sul mezza-voce e prevale la dichiaratività sull’esclamazione. C’è poi un “effetto di fondo” che sorregge il loro progetto musicale: dissolving view, tutto è placido ma nonostante ciò tutto sparisce in una dissolvenza incrociata. È indubbio che di Satie e di Ellington vengano qui colti alcuni caratteri di parentela estetica: il miniaturismo, la fragilità, l’intimo camerismo e, non di meno, ma senza forzare la mano, alcune ipotesi moderniste, così come la proiezione prismatica su un futuro incerto, ma mai percepito come inquietante. Tra i sassofoni/flauto (Andra Morelli) e il pianoforte (Silvia Belfiore) si configura una relazione tra mobilità e staticità, implementazione improvvisativa e dettato della scrittura. Morelli, quando non è tematico, propone tendenzialmente un fraseggio in risposta che rivela un gusto per l’appoggiatura, cosa perfettamente consona al pianismo sobrio di Belfiore. L’eccezione dell’ultima traccia (“Angelica” di Ellington) che vede in aggiunta un terzo elemento (Alessandro Garau alla batteria) non muta ciò che permea l’intero disco: il sentimento del piacevole entro la dimensione di una bellezza aderente, per dirla in termini kantiani. La registrazione è ben spazializzata, con i due strumenti in presenza abbastanza frontale ed un riverbero sufficientemente naturale. Non cercate qui la dromologia del contemporaneo. Al contrario, lasciate riemergere intatta la colloquialità salottiera di un futuro-passato.