Andrea Grossi: le età di un minuto

Foto di Anna Ferro
Foto di Anna Ferro

Andrea Grossi è un giovane contrabbassista lombardo, già molto attivo nei circuiti che trafficano in vario modo con la musica creativa. È titolare, con il suo trio, di un ottimo disco, Lubok, di recente pubblicato dalla We Insist! Records. Dopo averlo visto dal vivo al Ground Music Festival ed essere rimasti molto ben impressionati dal concerto, era necessario approfondire un po’.

Mi racconti il tuo percorso musicale? Mi interessano più epifanie, shock, orizzonti che il percorso accademico e il classico curriculum di collaborazioni.

Andrea Grossi: Nasco bassista elettrico, da adolescente. Inizio ad ascoltare i primi dischi sin dall’infanzia, grazie ai miei genitori che nutrono una grande passione per la musica, anche se non sono musicisti (mio padre ha una collezione di centinaia tra cd e cassette). A dodici anni sempre i miei mi portano al mio primissimo concerto: Peter Gabriel. Inutile dire che è un enorme shock. È però, circa un anno dopo, un video di Roger Waters a farmi innamorare del basso. Inizio a suonare a quattordici anni: da subito prendo lezioni e dopo un annetto comincio a suonare anche in pubblico coi miei amici d’infanzia, principalmente musica dei Led Zeppelin. È con loro che qualche anno più tardi faccio il mio primo vero lavoro come musicista, incidendo in un disco dei Matia Bazar, appena compiuti 18 anni. Fino a quell’età avevo suonato principalmente hard rock e progressive. Nel frattempo il mio insegnante diventa Enea Coppaloni, che mi spiega e mi fa scoprire Bill Evans e i Quest di Liebman/Beirach. Negli stessi anni conosco anche Alberto Tacchini che alla fine delle superiori mi consiglia di iscrivermi al conservatorio “Arrigo Boito” di Parma. Dopo aver assistito ad una giornata di lezioni, scatta subito una scintilla per il contrabbasso e una profonda intesa con Roberto Bonati, che infatti diventa il mio mentore. Roberto Dani è un’altra grande scoperta, un musicista e performer che è tutt’ora una delle mie più grandi fonti di ispirazione. Già durante i primi anni di conservatorio avevo iniziato a muovere i primi passi nel mondo del jazz, avendo subito la fortuna di entrare in contatto con alcuni grandi musicisti milanesi. Ad accogliermi a braccia aperte soprattutto quelli della scena del free jazz: Daniele Cavallanti per primo, poi Filippo Monico, Paolo Botti, Ricordo Luppi e molti altri… successivamente avevo conosciuto anche il collettivo Tai No-Orchestra, di Roberto Masotti, Massimo Falascone e Roberto Del Piano, e avevo iniziato a interessarmi all’improvvisazione radicale. Poi l’importante incontro con Giancarlo Nino Locatelli e, successivamente, con Cristiano Calcagnile, Giancarlo Schiaffini, Sebi Tramontana, Alberto Braida, Luca Tilli, Gabriele Mitelli e molti altri tra i quali Maria Borghi, proprietaria della We Insist! Records, persona curiosa e colta che si interessa alla mia musica decidendo di produrla senza alcun compromesso.
Ho avuto la fortuna anche di suonare in orchestra e in gruppi da camera con incredibili musicisti: musica classica e contemporanea, in particolare mi è più volte capitato di suonare le musiche di Steve Reich, spesso diretto da Danilo Grassi. Grazie a Marcelo Nisinman invece ho scoperto il mondo del tango nella sue versione più contemporanea, genere di incredibile intensità che unisce un aspetto viscerale tipico delle musiche popolari a una grande preparazione strumentale e compositiva. Da una certa prospettiva è una musica molto vicina al jazz, almeno per come io lo intendo. Un’altra esperienza fondamentale è stata quella all’interno del ParmaJazz Frontiere Festival, che mi ha permesso di avere maggiore coscienza del mestiere del musicista e del lavoro che c’è intorno al musicista. Mi ha inoltre dato la possibilità di partecipare a produzioni incredibili (l’ultima mi ha fatto dividere il palco con, tra gli altri, Barre Phillips e Gyorgy Kurtag) e conoscere molti musicisti, italiani e stranieri. Poi c’è il mio forte legame con la danza contemporanea (soprattutto con Laura Matano ed il suo collettivo XL), le performance, la conduction, il soundpainting (anche con Walter Thompson), e, ciliegina sulla torta, durante un seminario, un brevissimo scambio di suoni di pochi minuti con Evan Parker che ha dato una vera svolta alla mia vita. Insomma, tante cose di cui sono molto felice e chi mi hanno dato tanto.

Ho trovato il disco molto ispirato. Come sono nate le composizioni ed in che modo lavori tra composizione ed improvvisazione?

Le prime composizioni che abbiamo provato a fine 2016 (risalenti al 2015) sono “Mendicus”, “Iwato” e “SnailTale”. Le altre due composizioni originali presenti nel disco invece sono state immaginate appositamente per noi tre: “MC” è un brano scritto con un mio personale metodo di “traduzione” delle lettere dell’alfabeto italiano in note musicali, ed in questo caso è la traduzione del nome “Manuel Caliumi”, al quale è dedicato del pezzo; “Ru-Bok” è invece il più recente, scritto poco prima di registrare, sicuramente il più astratto. È ispirato ai LUBOK, un tentativo di tradurre in musica la sovrapposizione cromatica e spaziale di queste stampe russe che mi hanno profondamente colpito.

Fatta eccezione per “SnailTale” (che è una song con una classica forma chorus) gli altri brani sono in forma aperta. Lasciano uno spazio bianco da riempire sia prima che dopo. La mia idea è che le varie composizioni entrino l’una all’interno dell’altra, uno sviluppo in movimento come in una continua narrazione in cui noi (e con noi intendo sia noi musicisti che noi ascoltatori) incontriamo nuovi personaggi che interagiscono accompagnandoci durante il cammino o mettendoci i bastoni fra le ruote. Non viviamo divisi in capitoli e non possiamo sempre decidere l’ordine degli avvenimenti della nostra vita, le cose si susseguono e si incastrano, a volte la gestione è semplice e a volte è (molto) più complicata, prima si è sublimi e poi si fanno dei grandi casini ma, anche dal caos, se lo si accetta e lo si gestisce bene, possono nascere nuove, inaspettate e meravigliose realtà alle quali non si sarebbe arrivati altrimenti. Il fatto, poi, che non si decida un ordine dei brani, fa sì che queste “incomprensioni” si creino naturalmente, stimolandoci a trovare nuovi percorsi, nuove strategie, nuove soluzioni.

Numi tutelari? Dentro questi pezzi ci ho sentito Ornette, la musica da camera, Tim Berne (anche nel trio con Formanek e Halvorson). Che altro?

Amo la musica del Novecento in varie forme: sicuramente Stravinskij, Messiaen, Ligeti, Shostakovich e Berio sono per me influenze fondamentali tanto quanto musicisti come Ornette, Coltrane, Braxton, Tim Berne, Paul Bley, Mark Dresser, Kenny Wheeler, Bill Frisell e tanti tanti altri. Nella lista ci metto anche Hendrix e Robert Fripp con i suoi King Crimson.

Ultimamente mi sto avvicinando anche alla musica elettronica e noto che questi nuovi ascolti “sintetici” rinnovano in parte la mia idea “acustica”, anche nel mio approccio strumentale.

Credo che, date le mie frequentazioni più strette, di riflesso, la lezione di Giorgio Gaslini e quella di Steve Lacy abbiano avuto ed abbiano ancora un forte impatto su di me e la mia musica.

Foto di Gianni Grossi
Foto di Gianni Grossi

Etichette che segui con attenzione? 

ECM, Winter&Winter, Clean Feed, We Insist! sono le prime che mi vengono in mente.

Musicisti con cui hai suonato e con cui vorresti collaborare? 

Roberto Dani, Eyvind Kang, Aruan Ortiz, Marcelo Nisinman, Michel Doneda. Con loro ho avuto la fortuna di suonare e mi piacerebbe molto avere altre occasioni in futuro. Jim Black, Tim Berne, Evan Parker, Hank Roberts, Frisell, DeJohnette, Braxton sono tutti sogni nel cassetto, chi lo sa, magari un giorno con qualcuno di loro…

Cosa non ti piace nel jazz e nella musica? 

In generale odio le classificazioni: chi chiude qualcuno in una gabbia per venerarlo o flagellarlo, chi cerca per forza di farti assomigliare a qualcun altro, chi ghettizza i musicisti creando ipotetici gruppi di amici e nemici in base all’aspetto estetico della musica e non a quello più profondo, vero.

Sono convinto del fatto che non sia tanto il cosa ma il come, l’approccio che si ha nei confronti della musica che si sta suonando e delle persone con le quali la si sta suonando in quel momento. A questo proposito credo che ogni musicista di jazz sia insostituibile perché porta con se il  proprio linguaggio.

Cosa trovi interessante?

Lavorare a lungo e costantemente con le stesse persone.
Trovo inoltre interessante chi si prende dei rischi e chi va in profondità, guardando oltre l’aspetto esteriore delle cose per sviscerare le fondamenta, l’essenza della musica.

Domanda banalotta: Com’è essere jazzista, giovane in Italia in questo momento storico? 

Non posso fare paragoni, la mia carriera è appena all’inizio. Quel che posso dire è che con molto impegno e dedizione alcuni risultati stanno arrivando e questo mi basta per continuare dritto per la mia strada. Inoltre mi sembra che ultimamente ci sia da parte delle istituzioni un’inedita attenzione verso i giovani e io a 26 anni ovviamente non posso che esserne felice. Certo, al momento se non insegnassi in un paio di scuole di musica, non riuscirei a cavarmela solo con i concerti, non in modo continuativo per lo meno, so anche che una volta non era così, però lo trovo un compromesso ragionevole, soprattutto per chi come me è all’inizio, più avanti si vedrà. Insomma, non dico sia facile, però almeno è possibile.

Ci parli nel dettaglio di Blend3? Da dove nasce la scelta (azzeccatissima) di suonare senza batteria? Quali altri progetti hai in atto al momento?

Io, Michele e Manuel ci siamo conosciuti in conservatorio e abbiamo sempre suonato insieme nelle più svariate situazioni. Blend 3 nasce come trio collettivo, un po’ per caso, o per meglio dire, semplicemente perché avevamo voglia di suonare insieme. Ci siamo trovati ad improvvisare e a provare un paio di pezzi di ognuno, alla fine Manuel e Michele hanno spinto perché portassi io del nuovo materiale perché i brani che avevo scelto sembravano funzionare per noi. L’idea di “escludere” la batteria non era nei nostri intenti iniziali, volevamo solo aspettare di capire chi sarebbe stato il nostro batterista ideale, poi abbiamo cominciato a renderci conto che il trio così com’era poteva funzionare molto bene ed essere forse più interessante perché ci costringeva in situazioni “scomode” alle quali non eravamo abituati e alle quali dovevamo trovare delle soluzioni funzionali che non facessero sentire la mancanza di nulla e, contemporaneamente, andassero incontro alla musica. La cosa bella è che questo trio ci “obbliga” a suonare in un modo completamente diverso rispetto a quello a cui siamo abituati in tutti gli altri gruppi di cui facciamo parte.

Al momento sto lavorando a Songs&Poems: un nuovo progetto che unisce Blend3 alla voce di Gaia Mattiuzzi, esordiremo l’11 settembre a Bologna e subito dopo, il 14, saremo a Novara. A novembre invece uscirà il mio secondo disco, sempre per We Insist! Records: Four Winds, una suite per 12 musicisti che è stata l’oggetto della mia tesi finale in conservatorio e che tengo particolarmente a documentare. È stato un lavoro di scrittura durato tre anni durante il quale ho potuto sperimentare le possibilità di un ensemble molto particolare (flauto, oboe, clarinetto, 3 sax, tromba, trombone, chitarra, piano, basso, batteria).

Parallelamente a questo sono co-leader di un quartetto di improvvisazione con Cristiano Calcagnile alla batteria, Manuel Caliumi al sax e Simone Quatrana al pianoforte, e di un duo con in violinista Davide Santi.
Faccio parte delle varie formazioni denominate “Pipeline” di Nino Locatelli, della band “I AM A FISH” del chitarrista Marco Carboni, del “Chamber Trio” di Danilo Tarso, del quartetto di Beatrice Arrigoni, del “Takla Jazz Trio” di Filippo Monico, del Milano Music Collective e di molte altre formazioni che vanno dal duo all’orchestra.

Cinque dischi di jazz da cui non credi di poter prescindere.

Cinque sono pochissimi ma… i primi che mi vengono in mente in ordine sparso sono:

ARC – Chick Corea, David Holland, Barry Altshull
Not Two, Not One – Paul Bley, Gary Peacock, Paul Motian
Conference Of The Birds – David Holland Quartet
Sankt Gerold – Evan Parker, Paul Bley, Barre Phillips
Snakeoil – Tim Berne
Guts – Mark Dresser

Sono sei… non riuscivo a togliere nulla da questa lista.