ALESSANDRO “ASSO” STEFANA, Alessandro “Asso” Stefana

Ci ha messo tutto il tempo necessario, Alessandro “Asso” Stefana, per dare un seguito al suo esordio da solista Poste E Telegrafi del 2013. Un abbondante decennio, per fare le cose per bene e concedere campo, nel mentre, a esperienze importanti, dai Guano Padano da lui condotti all’impegno per colonne sonore e collaborazioni, in studio e dal vivo, con Vicinio Capossela, Mike Patton, Calexico, Micah P. Hinson e… PJ Harvey. Proprio quest’ultima è l’illustre produttrice esecutiva di questo secondo album omonimo, targato Ipecac, che forse anche nell’omonimo titolo sta a indicare tanto una ripartenza quanto una piena identificazione con gli esiti artistici raggiunti.

Non accadeva dal 2004 del bellissimo Before The Poison di Marianne Faithfull che Harvey indossasse le vesti di produttrice – e in precedenza ciò era avvenuto peraltro soltanto per Funny Cry Happy Gift di Tiffany Anders. In fondo, tra la songwriter del Dorset e il musicista italiano c’è attualmente un comune lavoro di ricerca antidogmatica sulle radici, che lega questo disco a Let England Shake, The Hope Six Demolition Project – al quale aveva partecipato appunto lo stesso “Asso” – e I Inside The Old Year Dying. Harvey ha regalato persino uno statement: Questa misteriosa e splendida musica di Alessandro Stefana mi cattura. La sua fragilità e la sua dolcezza mi portano conforto ed empatia. Essa riflette la sensibilità unica del suo creatore, che ha attinto alla sua esperienza per consegnare al mondo questo disco profondamente commovente e vitale. Da parte sua, l’autore bresciano racconta che Polly Jean è stata cruciale nel ricercare la vera essenza di ogni composizione, trasmettendogli la forza di portare il progetto allo scoperto.

Blu bluesman solitario – l’unica presenza esterna è quella di Mikey Kenney al violino – e malinconico già sull’artwork di copertina, Stefana architetta un lavoro conciso, costituito per la prima metà da strumentali evocativi – quando guidati dai tasti, quando dalle sue inseparabili chitarre – e per la seconda metà, cioè per le penultime tre tracce in scaletta, dalla voce di Roscoe Holcomb, recuperata dagli archivi Smithsonian Folkways. Come se, in un Western soprannaturale, certi spiriti tornassero a parlare, abitare e possedere aree reali e immaginarie.

I dati di fatto sono due. Folk, musica da soundtrack, psichedelia del deserto e accenni tra ambient e post-rock, tutti i generi che insomma Stefana padroneggia in assoluta scioltezza da multistrumentista d’eccezione, si mettono al servizio dell’introspezione, mai della grandeur spaccona. Gli strumenti usati appartengono a epoche differenti: dal marxophone dei primi del Novecento agli organi, dalle pedal e lap steel alle sei corde acustiche per fingerpicking da manuale. L’intento era non a caso quello di posizionarsi tra terra e cielo, quindi tra riferimenti sonori del passato e improvvisazioni e tecniche di registrazione comunque sia afferenti al presente. A fare da sipario, c’è non a caso l’atmosferica “Continental Spazio”, estesa a dismisura, che vaporizza qualsiasi tipo di frontiera.