HILDUR GUÐNADÓTTIR

Hildur

Hildur Guðnadóttir, violoncellista e cantante, è nata in Islanda nel 1982. Appartiene a una famiglia di musicisti, che l’hanno fatta crescere sin da subito immersa nel suono e nel loro lavoro. La troviamo ormai da anni sul catalogo della Touch, un’etichetta con la quale sembra aver a che fare fino a un certo punto, almeno finché non si tirano in ballo le sue collaborazioni – delle quali parleremo nell’intervista – così eterogenee e così estranee al mondo dove ci verrebbe naturale collocarla. Nei dischi solisti Hildur esplora tutte le potenzialità del suo strumento principale, passando dal virtuosismo e dalla composizione di melodie malinconiche e autunnali allo sfruttamento di più moderni effetti per modificarne il suono o stratificarlo senza dover ricorrere all’intervento altrui. Col passare del tempo anche la voce ha cominciato a venire allo scoperto e a essere utilizzata secondo varie declinazioni. Ho provato a togliere di mezzo insieme a lei un po’ di equivoci (forse un po’ di cliché) sul suo conto. Non si è sbottonata troppo quando si è trattato di dire cos’è che fa, ma probabilmente ora è un po’ più chiaro cosa non fa. Dopo questo scambio di impressioni e dopo aver ascoltato di nuovo i suoi dischi, l’idea che mi è rimasta è quella di una musicista di sicuro aperta mentalmente, ma molto pragmatica, saggia e composta, la cui presenza sulle nostre pagine è una sorta di caso-limite, anzitutto perché non abbiamo davvero le competenze su di lei (anche linguistiche), in secondo luogo perché troppo “normale”. Il che non significa che Saman non abbia lasciato un segno.

Stai a Berlino. Molti dei miei musicisti preferiti vivono lì adesso. Ne ho intervistati alcuni: Mika Vainio, Andrea Belfi, Aidan Baker. Per questo voglio sapere anche la tua opinione sulla città.

Hildur Guðnadóttir: Sto a Berlino da un po’, ormai, e mi piace ancora sul serio. È una città grande, ma hai sempre spazio ed è relativamente tranquilla. Ma può essere anche rumorosa e piena di gente, se cerchi queste cose.

Mi collego alla prima domanda. In Saman, il tuo nuovo disco, canti “Heima”. Grazie ai Sigur Rós sappiamo che il significato di Heima è “casa”. È dura per te vivere lontano dall’Islanda? Il disco riflette forse questa condizione?

La traccia “Heima” è legata al sentirti a casa nella tua pelle, piuttosto che al suo significato geografico. Ci sono molte cose che mi mancano dell’Islanda, ma allo stesso tempo questo non è il momento giusto per me per tornare indietro.

Tutti scrivono che hai lavorato con Pan Sonic, Múm, Throbbing Gristle, Frost e Jóhannsson. A volte il “name dropping” può essere molto fastidioso. Se parlo di Tim Hecker in una recensione di Ben Frost… è ok, vediamo il nesso. Ma posso capire qualcosa di te, partendo dalle tue collaborazioni?

Sono completamente d’accordo, certe volte trovo molto fastidioso che la gente senta il bisogno di fare così tanto “name dropping” riguardo con chi io ho suonato. Però suppongo si tratti del bisogno che le persone hanno di mettere un’etichetta con un nome su tutto, di sistemarlo in determinate scatole. Ad esempio, è probabile che non capiresti dalla mia musica che sono nei múm, ma se conosci la band ti dice qualcosa sul mio background. Personalmente, desidererei che nessuno si sentisse in dovere di attaccare cartellini sulle cose, ma che provasse solo ad apprezzarle per ciò che sono.

I giornalisti ti chiedono spesso anche se ti senti più sperimentale o più legata alla classica. Però nessun musicista si può mettere in gabbia da solo. Sei felice di fare quello che fai ora? Cosa vorresti far meglio?

Suono uno strumento che ha una lunga storia nella musica classica e io ritengo che questo sia il perché la gente sia confusa sulla possibilità di chiamare “classica” la mia musica, o meno. Personalmente, non m’importa di quale sia la scatola dove la gente mi vuole mettere. Io non mi ci metto. Suono uno strumento che amo, e questo mi rende molto felice. Quando suoni uno strumento, inoltre, sai che non lo dominerai mai. Non c’è una fine. C’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire, e c’è sempre qualcosa da fare in maniera diversa o migliore. E questa è anche la bellezza del tutto.

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I giornalisti, inoltre, parlano della tua famiglia di musicisti. A loro piace crearti intorno un’aura di predestinazione. I calvinisti credono nella predestinazione. Sei credente? In Saman canti “Heyr Himnasmiður”, un inno religioso le cui parole sono molto antiche, anche se la melodia è di Thorkell Sigurbjornsson, scomparso nel 2013. Lui è un’influenza per te?

Io credo. Però è difficile descrivere che cosa sia ciò in cui credo, perché io stessa sto tentando di immaginarlo. Non credo in un uomo con una barba bianca che sta seduto su una nuvola, se è questo ciò che mi stai chiedendo. Io credo nell’energia.

Thorkell è stato un mio insegnante per un po’, e trovo che la sua musica sia davvero meravigliosa, quindi suppongo che mi abbia influenzato in molti modi, sì.

La domanda che ti ho fatto mi dà la scusa per chiederti che cosa sia la tradizione per te (è una trappola, voglio sapere se sei più sperimentale o “classica”…)

Secondo me la tradizione non è qualcosa limitato alla musica classica. Ti direi che ce n’è una anche nella musica sperimentale. Una parte di quella che noi chiamiamo “experimental music” è davvero tradizionale. Penso che non appena hai una scatola in cui mettere le cose, queste presto tenderanno a diventare “tradizionali”, perché quella scatola adesso c’è. Non che la tradizione m’infastidisca in qualche modo, comunque. Penso sia meravigliosa e che sia come una conversazione storica lineare tra persone che molto probabilmente non si sono mai incontrate. Accetto pienamente il fatto che non inventerò mai la ruota. Però, quando vado in bici, mi piace essere in grado di farla girare a destra se mi va.

Hai cominciato a cantare nei tuoi dischi. La tua voce è celestiale. Che cos’è cambiato dentro di te? Devo dire che l’uso che ne fai in Leyfðu Ljósinu sembra essere molto differente da quello in Saman. In Leyfðu Ljósinu mi hai ricordato Grouper e Jessica Bailiff.

Ho sempre cantato. In realtà l’ho fatto anche su tutti i miei dischi solisti, ma negli ultimi due, Leyfðu Ljósinu and Saman, è la prima volta che canto dei testi veri e propri, quindi la voce sta più davanti (esatto, ndr). Ho cantato in band pop e in dei cori sin da bambina, quindi farlo mi è caro come e quanto suonare il violoncello. Non so se ci siano differenze nella mia voce in quei due album. Sul perché io ora stia ricorrendo ai testi, e non prima: suppongo di aver semplicemente bisogno di dire qualcosa con le parole, in questo momento.

Che ne pensi degli artwork della Touch e della sua estetica? Wozencroft sta facendo del suo meglio con te.

Mi piace moltissimo lavorare con Touch. Mi fido davvero di loro e apprezzo le loro idee e ciò per cui si battono. Sono persone molto oneste e adorabili. Non è così facile imbattersi in questi pregi nel mio campo.

Possibilità di vederti in Italia nei prossimi mesi? Qual è il posto per suonare ideale per te?

Non sono previsti concerti in Italia, al momento, ma sono sicura che ci sarà modo di vedermi da voi nel prossimo futuro. E ci sono infinite possibilità di “posto ideale”. La mia platea ideale, invece, è quella concentrata.

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