SPARKLE IN GREY

Sparkle In Grey

Il loro ultimo lavoro, The Calendar, è il risultato di una lunga gestazione, e gli Sparkle In Grey sembrano essere una band che ha cambiato più volte pelle col passare del tempo. Resta però quella vena curiosa che permette loro di essere sempre peculiari e di non aggrapparsi mai troppo a uno stile ben preciso, pensando a ogni nuova uscita sempre come a un singolare “concept”, e i risultati sono, in un certo qual modo, pure spiazzanti. In questa intervista due di loro ci spiegano com’è nata la l’ultima fatica, oltre a raccontarci di altre curiosità. Buona lettura.

Ciao ragazzi. Raccontatemi di come è nato l’ultimo The Calendar e del perché ha visto la luce solo ora, dopo anni che era rimasto nel cassetto.

Alberto Carozzi: Ciao! Il disco è nato in effetti parecchio tempo fa, non ricordo esattamente quando, né esattamente come… c’era l’idea di fare un disco con strumenti acustici, si è partiti da quello spunto, ma non sapevamo come sarebbe stato, o come sarebbe dovuto essere. In genere i dischi che facciamo li consideriamo finiti quando ci accorgiamo che un cerchio si chiude attorno a un gruppo di brani, e questo cerchio è rimasto aperto per molto tempo. C’era sì la voglia di completarlo, ma non ci siamo posti il problema di rincorrere una scadenza. È anche interessante notare che un disco fatto in sette anni non potrà mai essere messo a confronto con uno fatto in sette giorni, o sette settimane, perché dentro quel tempo succedono cose diverse.

Matteo Uggeri: Una delle motivazioni per cui ci abbiamo messo tanto a concluderlo è anche che questo, a differenza degli altri (se si escludono le collaborazioni), è un disco fatto in casa, mese dopo mese. A volte su un brano capitava di non metterci mano per anni, mentre ci concentravamo su altri pezzi, o proprio sugli altri dischi usciti nel frattempo. “Quintilis”, ad esempio, è stato modificato decine di volte prima di approdare alla forma attuale col piano di Alessandro De Nito.

Come decidete l’idea che sta alla base di un vostro lavoro? Alludo specialmente all’ultimo disco, che so essere ispirato anche da un musicologo…

AC: Non mi viene molto da usare il termine “decidere”, perché sembra che ci mettiamo a fare delle riunioni a tavolino. Di discussioni ne facciamo tantissime, e di scelte anche, ma sono discussioni e scelte che, appunto, non hanno lo scopo di decidere qualcosa, ma di condividerlo; poi, quello che finisce per, come dici tu, stare alla base di un nostro lavoro, è semplicemente quello che riconosciamo come base del nostro lavoro stesso, o come base delle nostre discussioni, o come base dei nostri pensieri, a volte perfino come base delle nostre scelte quotidiane.

MU: La cosa più incredibile in questo processo secondo me sono le coincidenze che spesso ci portano in una certa direzione. In questo caso, ad esempio, un pomeriggio sono stato da Alberto per mixare per l’ennesima volta un pezzo del disco, e lui mi è uscito con questo saggio di Marius Schneider sulle “pietre che cantano” (che peraltro si collegava al disco precedente, alle cui copie avevamo allegato un sasso). Nel saggio, che poi Alberto mi ha passato, si parlava anche di corrispondenze tra animali e suoni, e proprio il giorno prima mia moglie Gaia, che ha collaborato al progetto, mi aveva suggerito di illustrare il disco con delle bestie… Ci è sembrato un segno! Dato che il saggio riguardava un chiostro medioevale, ecco l’idea del bestiario. Se hai tempo ti consiglio di leggerlo, è incredibile!

Pensate di essere cambiati molto da quando avete incominciato come band? Da quello che so ognuno di voi ha percorsi piuttosto eterogenei, anche solisti, incluse diverse importanti collaborazioni. Come riuscite a conciliare il tutto con gli Sparkle in Grey?

AC: Sì, molte cose rispetto all’inizio sono cambiate, sia nel suono, sia nel metodo di lavoro, o negli strumenti che usiamo; penso che non abbiamo un’identità rigida ma, ciononostante, credo, è un’identità abbastanza riconoscibile. E confermo anche la seconda affermazione che fai, in effetti facciamo anche altre cose, oltre a essere parte di questo gruppo; conciliare tutto non è un problema, o almeno non ce lo poniamo come tale, a volte le cose si sovrappongono, ma una non esclude l’altra, anzi, se ci penso, le esperienze individuali finiscono per diventare anche una ricchezza da mettere nel lavoro insieme.

MU: La difficoltà maggiore è conciliare la musica con il lavoro e la famiglia. La musica con la musica si concilia molto bene di solito! Comunque sì, siamo cambiati tanto. Fai conto che nel primo disco c’era un pezzo in cui Al suonava il basso, Cristiano la chitarra, io il computer e Franz il violino. Nel prossimo ce n’è uno in cui Alberto è alla melodica, Cristiano al sax, io alla tromba e Franz alla viola. Ciò non significa che sappiamo suonare di tutto, però ci piace provare a vedere che succede a mischiare le carte.

Un paio di considerazioni che vengono fuori ascoltandovi è che fate musica in modo rigoroso, si sente che è pensata ed architettata con abnegazione e cura per i particolari, ma per esempio le vostre copertine, come già notato ai tempi di Mexico dal collega Fabrizio Garau, sono piuttosto ironiche (e legate al mondo dei fumetti). Direi che è una cosa che vi fa onore e che vi contraddistingue da altri gruppi.

AC: Grazie. Contraddistinguerci dagli altri gruppi è importante perché sono tutti dei miserabili schifosi. E inetti.

MU: Ehm… più o meno. Credo Alberto sia ironico come le nostre copertine! Comunque è vero, siamo maniacali nel realizzare i dischi, e poi racchiudiamo il tutto in confezioni a volte anche volutamente fuorvianti. C’è chi ci critica per questo, ci sono anche persone che dicono che il fatto che Mexico abbia quella copertina ha rovinato il disco perché “sembra che dentro c’è musica mariachi” (!).

Sparkle In Grey

Mi dite da che tipo di ascolti provenite, e come pensate di evolvervi/cambiare nel futuro prossimo, se ne avete idea?

AC: Tantissimi classici degli anni Sessanta e Settanta, che non ho ancora finito di scoprire. Per esempio in questi giorni ho recuperato i primi tre dischi dei Fleetwood Mac e, porca miseria, che roba! Poi ultimamente mi sono accorto che c’è un sacco di musica francese che mi piace.

MU: Io dico sempre che le mie influenze partono dalla new wave e dall’industrial degli anni Ottanta, ma recentemente ho traslocato e mi son ricapitati in mano un sacco di dischi che mi hanno molto segnato ancora prima, e non me ne rendevo conto: in primis Ennio Morricone, Franco Battiato, Bennato, Guccini, De André… e poi anche un sacco di musica dei Novanta, tipo il grunge. Di Franz ti posso dire che è un grande fan dei Nine Inch Nails e dei Pink Floyd, e so che ascolta tantissima musica classica e cantautorato “moderno” (tipo i Bluvertigo, che io detesto!). Cristiano come me aveva una passione per Bennato, poi sfociata nell’amore verso i Flaming Lips. L’ultima volta in macchina però ascoltava Duke Ellington e Mulatu Astakte.

Quando siamo assieme mangiamo di tutto.

Suonate abbastanza dal vivo o vi piacerebbe farlo più spesso? Che tipo di feedback ricevete quando siete su di un palco?

AC: Suoniamo pochissimo dal vivo, e sarebbe bellissimo farlo più spesso. Suonando poco, non siamo il massimo della scioltezza sul palco, anche se i live che abbiamo proposto negli ultimi due anni hanno funzionato benissimo.

MU: Rispetto al feedback… la cosa che più ci fa piacere è che ogni tanto qualcuno ci raggiunge a fine concerto per dirci che gli abbiamo ricordato il suo gruppo preferito, sempre diverso ogni volta. Una volta un tizio ci ha detto che siamo il suo gruppo “dub” preferito.

Mi raccontate come diavolo avete fatto a prestare una vostra composizione per uno stilista come Alviero Martini? L’ho scoperto leggendo il vostro sito web.

MU: Accadde agli inizi della nostra carriera. Fruttò pure un discreto incasso economico, che ci illuse di poter fare soldi con la musica. Si tratta di una storia un po’ complicata: te lo racconto in via privata se vuoi…

In ultimo, consigliatemi qualche lavoro che vi ha colpiti in questo ultimo periodo, e ditemi se siete già pronti per una nuova avventura discografica.

MU: Una delle cose più strambe che mi è capitato di ascoltare risale a qualche giorno fa: una cover di “Guns Of Brixton” dei Clash fatta da Dub Mentor e cantata in cinese da Jan Yun, pubblicata da Ent-T, che è un’etichetta israeliana. Di dischi usciti ultimamente mi è piaciuto tanto quello di Morrissey, cosa che non mi sarei aspettato. Risale invece a qualche anno fa “The Kenia Sessions” di Sven Kacirek, davvero incredibile. Un disco strepitoso!
In cantiere noi abbiamo sempre dischi nuovi, anche se non so come faremo a finirli e pubblicarli. Abbiamo registrato “Brahim Izdag” da Andrea Serrapiglio quest’estate, e anche un lungo pezzo noise per uno split che dovrebbe uscire nel 2015. Quando riusciamo ad andare in sala prove mettiamo giù idee per quello dopo ancora. Chissà se ce la faremo.