Sandro Mussida: la magia è nel dettaglio

Sandro Mussida, foto di Rebecca Salvadori
Sandro Mussida, foto di Rebecca Salvadori

Sandro Mussida è un figlio d’arte, chi conosce la storia della musica rock italiana sa perfettamente chi è Franco Mussida della Premiata Forneria Marconi. Sandro non è però, faccio un esempio tra i tanti, un Cody Carpenter, che suona esattamente quello che faceva (meglio) il regista John. Si differenzia legittimamente dal passato e cerca una sua via, fatta di ascolti importanti, studio, residenze all’estero e non solo. La sua non è musica che si può suonare dal vivo sempre, necessita di numerosi musicisti, organizzazione e location adatte, ma si può apprezzare tranquillamente su disco. Dopo Ventuno Costellazioni Invisibili ora è la volta dell’interessante EEEOOOSSS, uscito per la serie “Grandangolo” curata da Donato Epiro e licenziato dalla Soave Records, sottoetichetta della riminese Cinedelic di Marco D’Ubaldo. Qui le sue parole.

EEEOOOSSS, oltre ad avere un titolo particolare, conserva quella tua evidente voglia di orchestrare suoni. Se penso al precedente Ventuno Costellazioni Invisibili mi viene in mente un suono delicato, fragile. Nel nuovo album invece lo percepisco come più lineare, forte. Mi sono avvicinato alle tue intenzioni? 

Sandro Mussida: Difficile dirlo! Le intenzioni non sono state altro che quelle di seguire una ricerca su alcuni processi compositivi, quindi in qualche misura il risultato è sempre stato inaspettato; però certamente le differenze sono molte, anche se in qualche modo nascono da una stessa ricerca sul timbro e da un certo atteggiamento verso il fenomeno sonoro. Con EEEOOOSSS lavoro in dettaglio intorno al rapporto tra tre elementi che da subito si rivelano sulla scena, inoltre lo spazio acustico utilizzato in modo esteso e la sintesi strumentale stessa creano colori più uniformi e una densità maggiore del materiale. In Ventuno Costellazioni Invisibili a essere in relazione sono invece più timbri, e tutti hanno in qualche modo un ruolo solistico, per quanto misurato.

Mi parli un po’ dei tuoi esordi? Come sei arrivato a queste forme così complesse di orchestrazione? Almeno io le percepisco così… 

Ho iniziato da bambino suonando il violoncello, che è stato il mio primo strumento e direi tuttora quello attraverso il quale primariamente mi esprimo se devo suonare dal vivo. Il pianoforte, jazz e moderno, è stato il mio strumento dell’adolescenza. Difficile sintetizzare, ma posso dirti che sono stato un onnivoro in musica fin da subito, studiando, dopo il violoncello, teoria, armonia e pianoforte nelle prime aule del CPM a Milano con Massimo Colombo, per poi passare alle orchestrazioni per big band a casa di un grande maestro quale era Filippo Daccò. Ho anche praticato qualche anno il pop e la produzione, che mi ha portato a lavorare con Corrado Rustici a San Francisco, ma al ritorno dagli States dopo questa esperienza ho sentito il bisogno di ricondurre i molti percorsi e interessi alla loro base comune e mi sono iscritto a composizione. Dopo sette anni di lavoro, passati da una parte a insegnare produzione e analisi musicale a scuola mentre a casa studiavo contrappunto rinascimentale, armonia e orchestrazione con Giovanni Verrando, ho capito che le mie molte esperienze avevano un senso e ho cominciato a scrivere musica che finalmente sentivo davvero mia. La ricerca non è per nulla finita ovviamente, e ogni esperienza fatta mi ha portato qualcosa. 

Questa domanda devo fartela: tuo papà ha ascoltato i tuoi dischi? Cosa ne pensa? 

Questo dovresti chiederlo a lui! Parliamo spesso e scambiamo volentieri idee e parole sul suono. Il vocabolario può essere diverso, ma in fondo la sostanza è spesso la stessa. Da parte sua sento stima, rispetto e ascolto, e ne sono molto onorato. 

Altra domanda che devo farti: com’è essere il figlio di uno dei chitarristi più apprezzati del rock-prog italiano? Sei cresciuto in mezzo a musicisti immagino… 

La risposta potrebbe essere che non so come “non sia” essere cresciuto così. Per me è stata la normalità avere amici in casa che scrivevano canzoni o suonavano, l’essere stato bambino e ragazzo correndo tra i palchi, i camerini o gli studi di incisione. Solo col tempo mi sono reso conto di avere vissuto esperienze formative. Certe cose ti attraversano, tu ci sei dentro e a un certo punto diventano parte di te. Stare insieme a musicisti come quelli che passavano per casa durante la mia infanzia è stato un esempio e una palestra continua, e in qualche modo posso immaginare abbia costruito in me alcuni punti forti. La musica può essere una magnifica esperienza intellettuale, ma è quando attraversa il corpo e la facciamo nostra che in qualche modo diventa umana. Allora direi che l’esperienza fatta in diretta del suonare vero, puro, intenso, forse è stata una delle cose più forti che ho ricevuto e che porto con me. 

Vivi tra Londra e la Toscana. Un po’ ti invidio, perché dev’essere bello passare da una metropoli stimolante a una provincia che sicuramente ti ritempra. Faccio questo discorso, che può sembrare retorico e un po’ lo è sicuramente, perché di questi tempi penso sia necessario vivere due realtà così differenti per poter capire meglio la società. Sei d’accordo? 

Assolutamente, anche se questa combinazione è nata soprattutto in seguito al desiderio di accogliere il mio bambino di pochi mesi ora, in una dimensione non urbana. Dopo alcuni anni a Londra è stato importante sperimentare altri ritmi. Credo che il luogo in cui si sceglie di vivere abbia un’influenza che non va sottovalutata e che agisce potentemente su molti livelli. In qualche modo spostarti ti porta a renderti conto di queste cose.

Cosa ascolti quando sei in Gran Bretagna e cosa ascolti quando sei in Italia? 

Gli ascolti, più che ai luoghi, sono legati a cosa sto facendo o scrivendo in un determinato periodo. Da qualche giorno ascolto Arturo Benedetti Michelangeli, per esempio. Ho da poco avuto il piacere e la fortuna di registrare un mio lavoro per piano solo con Roberto Paruzzo, pianista proveniente dalla sua tradizione, e mi hanno molto colpito la sua conoscenza, sensibilità e controllo sul timbro dello strumento. Al di là di questo, gli ascolti più efficaci che ho fatto rimangono quelli legati alle esperienze dal vivo. In UK ho incontrato la scena elettronica della tradizione di Sheffield, Manchester… in particolare il lavoro di Mark Fell, col quale esiste uno scambio sulle potenzialità della musica di sintesi, del suono acustico in relazione alla tradizione, i luoghi, la luce… Tutto questo è ciò che mi porta vicino al senso del tempo attuale con le sue tensioni, contraddizioni, ambizioni, in breve a ciò che si può dire contemporaneo. L’Italia, d’altro canto, rappresenta per me il respiro più umanistico e naturale, legato invece a un tempo senza tempo, un assoluto che sento tanto più importante quanto più universale. Quando sono in Toscana ascolto qualche volta musica antica, ma più spesso, a dire il vero, non ascolto nulla di registrato, visto che il paesaggio sonoro dove siamo immersi è da solo così ricco e vivo. Mi piace anche venire sorpreso da quello viene suonato nella casa e che non scelgo personalmente: un disco di Nina Simone, le lallazioni del mio piccolo…

Parlami del tuo rapporto artistico con Alessandra Novaga. Cosa trovi in lei di speciale? 

Ci siamo incontrati in un momento per entrambi in qualche modo cruciale, pronti ad esprimere le nostre rispettive nature dopo anni di lavoro, studi, esperienze diverse. Alessandra aveva appena imbracciato la chitarra elettrica dopo anni di solismo classico, io venivo da un periodo di ricarica e studio, ero pronto a scrivere cose nuove e avevo voglia di ritornare a suonare. Credo fosse il 2010. È nato il trio Hurla Janus insieme al percussionista scaligero Elio Marchesini, ed è stata subito un’esplosione di creatività e idee, suonando set che tenevano vicini la tradizione italiana dell’avanguardia storica e contemporanea sperimentale (da Davide Mosconi a Francesco Gagliardi) con la scena americana pre anni Cinquanta (Cage, ma anche Fluxus o cose nostre…), tra performance, improvvisazione, repertorio. Con Alessandra la collaborazione è tuttora aperta. La considero una musicista straordinaria, ma anche una persona dotata di una grande sensibilità e cultura extramusicali. Inoltre non conosco nessuno che tocchi lo strumento elettrico come fa lei, scevra dalle sovrastrutture e dei cliché del chitarrismo moderno. Non avrei potuto pensare di scrivere un brano come “In Memoria” se non per la sua chitarra. 

In percentuale, quanto c’è di “elettronico” e quanto di “suonato” nei tuoi album? 

Cento per cento di suonato e cento per cento di elettronico: quando i due si incontrano diventano una cosa sola nelle nostre orecchie. In cucina l’insieme è il risultato di molti elementi, e anche il più piccolo contributo determina fortemente il tutto. Così mi piace pensare l’orchestrazione di elementi elettrici, acustici, elettronici. Anche solo il passaggio di un singolo strumento attraverso una catena elettronica influenza l’intero sapore, cambia l’essenza dell’insieme. La distinzione forse la farei tra ciò che viene suonato da una persona, da un musicista, che dunque esiste in un tempo misurabile e in uno spazio acustico, e ciò che viene invece programmato e restituito da un computer. L’esperimento di EEEOOOSSS in fondo è stato questo, catturare un suono umanizzato per restituirlo meccanizzato da dei processi di misura organizzati dal computer. Inoltre per me l’esperienza del suono in un luogo fisico è un elemento importante che distingue la natura della musica puramente elettronica realizzata interamente nel computer, “senza luogo” per eccellenza, da quella suonata. Per questo dopo il processo di elaborazione elettronica del materiale acustico ho sentito il bisogno di riportarlo in uno spazio architettonico particolare e lavorarlo di nuovo da lì. 

Nelle recensioni che ho scritto, ho associato il tuo lavoro a mostri sacri (almeno per me) come Fausto Romitelli, Luciano Cilio, Prima Materia, Lino Capra Vaccina. Non mi succede spesso di farlo, perciò è un piacere quando è possibile. Ti piacciono i loro dischi? 

Credo che i meccanismi di associazione che l’esperienza della musica ci regala siano sempre molto personali e dunque difficilmente universalizzabili, per questo molto interessanti. Sono colpito da questi paragoni… Ciascuno dei nomi che fai ha un mondo a sé, ovviamente. Fausto Romitelli l’ho conosciuto sulle partiture di An Index Of Metals grazie a Giovanni Verrando. Era meticoloso e visionario, e ha saputo portare l’orchestra vicino a certe sue visioni, insieme emozionanti e astratte, una cosa molto difficile da fare quando si parla di musica scritta. Luciano Cilio e Prima Materia sono state scoperte recenti, legate al mondo del vinile, e non posso dire di conoscere da vicino il loro lavoro. Della musica di Cilio percepisco una grande onestà e trasparenza. Con Lino ho condiviso un concerto straordinario della durata di dodici ore per una intera notte all’interno del Teatro Donizetti di Bergamo insieme a Olivia Salvadori. Una persona delicata, dalla sensibilità e musicalità sognante e precisa allo stesso tempo. 

Avremo modo di vederti all’opera? 

Mi è stato chiesto di portare EEEOOOSSS dal vivo. Il lavoro per sua natura può funzionare solo in determinati spazi; spero possa accadere presto. Anche Ventuno Costellazioni Invisibili è in programma al Planetario di Milano la prossima primavera. Il festival No Bounds a Sheffield (ottobre 2019) mi ha appena chiesto una composizione originale per un gruppo misto di strumenti tradizionali da inserire in un set doppio da suonare insieme al produttore elettronico persiano Ata Ebtekar (Sote). Sempre in UK siamo giunti alla quarta parte della serie Exercises On Displacement, che si svolge a Londra lungo tutto il 2019 ed è curata con Olivia e Rebecca Salvadori (il collettivo Tutto Questo Sentire / TQS). Si sta rivelando un esperimento molto interessante sulla contrapposizione di set estremamente diversi tra loro e prosegue il lavoro iniziato nel 2014 a proposito di interazioni tra spazio, suono e visioni. Exercises On Displacement 4/5 si terrà a Londra il 21 settembre prossimo presso il sito di una galleria in Mayfair, co-prodotto dal Camden Arts Centre e 33-33; è supportato anche dall’Istituto Italiano di Cultura di Londra e da Roberto Lombardi, nostro primissimo interlocutore e sostenitore dell’intero progetto. Per questa occasione sto lavorando a una composizione per due nyckelharpa (strumento della tradizione popolare medievale svedese simile alla viola). Nella stessa sera presenteremo lavori visivi e set elettro-acustici, due performance e una conversazione sul ruolo dell’artista curatore in rapporto al concetto di displacement, tema chiave della serie.