ORCHESTRE TOUT PUISSANT MARCEL DUCHAMP, We’re OK. But We’re Lost Anyway

Con un nome che si ispira alle grandi orchestre tradizionali africane (Orchestre Tout Puissant Konono Nº1, Orchestre Tout Puissant Polyritmo) e a un personaggio enorme quanto Marcel Duchamp, dalla creatura del contrabbassista Vincent Bertholet ci si può aspettare di tutto.

Dal vivo sono una gioia per le orecchie e gli occhi, in 12 sul palco: due batterie, due contrabbassi, due chitarre elettriche, due marimba, due tromboni, violoncello, violino e le voci di quasi tutta l’orchestra. Considero abbastanza rivoluzionario tenere in piedi un progetto che coinvolga così tante persone sul palco, e ne preveda addirittura il raddoppio sulla maggior parte degli strumenti. Niente pedaliere, effetti ed artifici sonori: tutta la musica e le dinamiche sono gestite dalla presenza e assenza degli ingredienti e delle parti. Ho avuto la fortuna di assistere ad un loro concerto sul molo di Varazze (SV), organizzato da Raindogs House, eroi locali dal palato sopraffino.

Quasi impossibile restare fermi, in molti a ballare, altri come minimo a battere il piedino sul molo sporco di sabbia. Un misto di influenze che attingono dal kraut rock, come si trattasse di Stereolab acustici, Can da camera o una Penguin Cafe no wave (potrebbero infatti essere materiale per Alien Transistor, l’etichetta dei Notwist).

Sul palco si svolge un rito pagano. Gli scheletri sonori sono molto semplici e ripetitivi ma gli interventi di chitarre, fiati e archi sono pensati con la precisione monomaniacale di un asperger (citando il press sheet della band). Condividevo con Nazim Comunale che in effetti il “free jazz”, che loro stessi mettono in calce alla descrizione della loro musica, non è presente; suppongo sarà parte del processo di composizione. Difficile, infatti, trovare una vera deflagrazione in questo senso: la materia sonora è sempre estremamente controllata. Ricordando però che un altro aspetto che rende molto prezioso il lavoro di OTPMD è il fatto che comunque scrivano delle “canzoni”, tutta la musica è a sostegno del messaggio. “We’re OK. But We’Re Lost Anyway”. Argomento chiaro del disco è come stiamo vivendo la pandemia. Non a caso la traccia in apertura si intitola “Be Patient”. Il sentimento che percorre tutto l’album (il loro quinto) trasmette ancora meglio il senso di coralità e l’invito a farne parte. La capacità più spiccata di questi svizzeri è infatti quella di saper instillare un bisogno di trance e azione collettiva, cose che tanto mancano in questo momento storico. Il mio testo preferito è sicuramente “So Many Things”, in cui elencano una lista dettagliata di cose per cui sentirsi in colpa in questa società che ci ha inevitabilmente portato a essere “woke” e coscienti del nostro impatto sul pianeta e l’ambiente. Ora più che mai.