JESSIKA KENNEY

JESSIKA KENNEY

Yogyakarta sa come sorprenderti. Le sue gallerie d’arte contemporanea, i musicisti di strada, le chance di un turismo sostenibile nei vialetti dell’antico quartiere di Kotagede, che racchiude le rovine del sultanato di Maratam, ti fanno dimenticare di essere in una delle popolose metropoli del sud-est asiatico.
Jessika ha passato gran parte dell’estate qui, immersa nella vita di una vera pesindhèn.
A guardarla ora, gli occhi luminosi e la pelle levigata, il sorriso dolce e i modi gentili del Sol Levante, non si direbbe che abbia avuto un passato movimentato e che abbia esordito collaborando con band come Sunn O))), Asva, Sun City Girls e Wolves In The Throne Room.
I suoi colori, come quelli dei motivi tambal dipinti sui sarong, le lunghe gonne a tubo indonesiane, sono ricchi di sfumature e ricreano mondi ancestrali, setacciandoli con stupore infantile e trascendendoli in un universo mistico.
Una minuziosa selezione di ere e luoghi, dalla Persia di Attar alle antiche tradizioni giavanese e sundanese, è il punto fermo intorno al quale ruotano le sue composizioni. Una prassi ossequiosa e infedele nei confronti di un repertorio ricchissimo e di difficile interpretazione. Una scrittura schizofrenica e chiaroveggente, che la porta a rintracciare connessioni tra culture diverse, ma legate a doppio filo con l’Islam.
La sua musica si avvale del supporto del gamelan e, più spesso, della presenza del marito, il violista e compositore Eyvind Kang.
A dirigere la narrazione è la voce, col suo peso specifico e un’ampia palette di armonici che si allungano e incastonano in morbide sortite microtonali. Un suono che è al crocevia tra Oriente e Occidente, e l’espressione di una contemporaneità che trascende motivi millenari.
Il 2015 è stato un anno importante per lei, poiché lo scorso inverno il Frye Art Museum di Seattle ha ospitato per un mese la sua performance “Anchor Zero”, mentre in primavera è uscito Atria, il suo primo disco solista, pubblicato dalla Sige degli amici Faith Coloccia e Aaron Turner.
Ma andiamo con ordine, e raccontiamo questa storia dall’inizio.

La parabola di Jessika Kenney somiglia a un avvincente romanzo di formazione (per ricostruirla mi sono servita anche di quest’intervista). Nata e cresciuta nella città di Spokane, un angolo di provincia nello stato di Washington, si avvicina al mondo dei suoni abbastanza presto. La madre, una poetessa che collabora con l’Università Orientale, è appassionata di musica: jazz, folk, classica, new wave. I figli rimangono in piedi fino a tardi per cantare le canzoni di Louis Killen, trasferitosi a Puget Sound dall’Inghilterra. Amano in particolare il repertorio marinaresco, dove non mancano oscenità e parolacce.
Più tardi Jessika si interessa alla letteratura e all’opera teatrale, da adolescente mette su un gruppo punk e si esibisce dal vivo in performance più o meno scioccanti, organizzando serate diy piuttosto incasinate e girando con dei tampax insanguinati tra i capelli. Tutto questo le fa guadagnare una pessima fama e, assieme all’ambiente culturalmente oppressivo di Spokane, la porta ad allontanarsi dalla città. Inizia a interessarsi al dibattito post-strutturalista, ai movimenti politici radicali e il suo mito è la poetessa punk Kathy Acker. Finite le scuole superiori, decide di iscriversi al Cornish College di Seattle per studiare jazz. Capisce che il dialogo tra cultura alta e bassa e il femminismo come modo per decostruire il linguaggio sono espressi meglio dal jazz di Ornette Coleman che dal punk. Scopre che ribellione e anarchia possono sfociare nell’improvvisazione e trasformarsi in qualcosa di nuovo e interessante. Il mondo accademico comincia però a starle stretto e così decide di andare in Indonesia per continuare a studiare improvvisazione. Fa avanti e indietro molte volte, lavorando quanto basta per mettere da parte un po’ di soldi e ripartire. Entra in contatto con la scena underground locale che si occupa della musica tradizionale e del modo in cui si rapporta alla politica e all’arte radicale. È attratta in particolare dall’uso non lineare e anti-narrativo dei testi, come dall’idea di poter attingere a una vasta tradizione scritta che si presti a molteplici interpretazioni.
Quella per la musica giavanese e persiana è una passione che condivide con Eyvind, che da tempo studia le tradizioni del Medio ed Estremo Oriente, coniugandole con la fascinazione per epoche lontane. Riferendosi al filosofo sufista Ibn Arabi, Kang descrive il loro rapporto umano e artistico utilizzando il concetto di suono e la sua ombra. Come un qualsiasi oggetto proietta un’ombra, che può espandersi a dismisura rispetto al punto di partenza, così è il loro rapporto, e in particolare quello tra i loro strumenti.

Jessika Kenney ed Eyvind Kang

La prima parte del percorso artistico di Jessika è caratterizzata dai lavori a quattro mani col marito e da diverse collaborazioni, tra le quali ricordiamo quella col maestro Hossein Omoumi, Voices Of Spring, le partecipazioni a Funeral Mariachi dei Sun City Girls e a Monoliths & Dimensions dei Sunn O))), un paio di dischi di giganti dello sludge/doom come gli Asva, uno coi Wolves In The Throne Room e il monumentale Mare Decendrii dei Mamiffer. Da qualche anno a questa parte è poi entrata nell’ensemble Gamelan Pacifica, uno dei più importanti degli Stati Uniti, con cui ha pubblicato di recente l’album Nourishment.

I dischi con Kang sono definiti dalla specularità tra viola e voce, a scavare nel ventre delle tradizioni giavanese e persiana. La contemporaneità è accennata da uno stile libero ma rigoroso, in cui la produzione quasi trasparente di Mell Dettmer evidenzia la chiarezza dei suoni. Dei loro tre album insieme, Aestuarium, The Face Of The Earth e At Temple Gate, abbiamo già parlato in precedenza. Quest’anno è invece uscito Atria ed è stata realizzata la performance “Anchor Zero”, lavori che hanno definito la sua personalità artistica al di là delle numerose collaborazioni.

Jessika Kenney, Anchor Zero, Frye Art Museum 2015 by Faith Coloccia

“Anchor Zero” è un’installazione interattiva basata sul concetto di svuotamento. Lo zero è un punto di riferimento vuoto attraverso cui passa il respiro, che al risuonare di ogni pulsazione comunica l’inseparabilità tra l’essere e il suo ambiente. Lo zero è anche un tono che si muove di continuo, udibile nei frammenti di voce diffusi nella galleria.
All’entrata c’è una breathing room a forma di cubo, dove una struttura di bambù inizia a “respirare” se vi espiriamo e inspiriamo vicino. Il cubo è anche un luogo di interazione tattile e precede tre ingressi ad altrettante stanze, dove un suono, precedentemente registrato, si diffonde nello spazio. Su una parete è proiettato un video che incita alla partecipazione e all’esercizio, mentre un gioco di parole sull’assenza del cantante suggerisce che il suo posto potresti prenderlo tu. Altre proiezioni video mostrano le parole wall, water, wood, suggerendo la soglia fisica delle frequenze e i loro spettri sonori. L’esperienza che ne risulta è difficilmente descrivibile, ma viene annunciata come un errare e suonare che interiorizza la vocalizzazione e al tempo stesso supporta un accresciuto senso dello spazio esterno, in un’ontologia uditiva. Reminiscenze cronenberghiane affiorano qua e là, ma in una veste positiva e celestiale.
Registrato tra il 2007 e il 2013, con il supporto di musicisti di ben tre gamelan diversi (Gamelan Pacifica, Gamelan Kusuma Laras e  Gamelan Rakyat), Atria documenta invece una lunga indagine sui rapporti tra la tradizione giavanese e quella persiana, scavando sempre più a fondo nei repertori. È un tributo al ruolo del suono nelle pratiche esoteriche, come la profetologia e le acque curative, e sottende un caleidoscopio di associazioni: dalle corrispondenze col plurale del latino atrium, che evocano le camere superiori del cuore, all’omaggio alla Satriya giavanese, una delle danze più famose dell’Indonesia, in cui si raccontano storie mitologiche. Il tutto traslato in un presente che non conosce anacronismi di sorta.
Abbiamo deciso di intervistarla per farci raccontare qualcosa in più.

Atria suggerisce un ascolto a più livelli: spirituale e intellettuale, oltre che musicale. È anche un tributo al ruolo del suono in pratiche esoteriche come la profetologia e il curarsi con l’acqua. Ci racconti qualcosa in più?

Jessika Kenney: La traccia in cui si parla di profetologia è “Pamor”. Pamor è una parola giavanese che descrive i motivi damascati incisi sui pugnali delle cerimonie rituali. Ho immaginato una sorta di relazione alchemica tra i pattern del metallo e quelli sonori, per rappresentare l’incarnazione delle qualità umane nei profeti. La composizione è una sorta di codice che crea uno spazio di visualizzazione o contemplazione, ma senza imporre un’immagine ben definita.
“Her Sword” è invece una rilettura di un noto mantra giavanese (kidung) che include testi profetologici ed è un tentativo di approfondire pratiche musicali e svelarne i significati, nel rispetto di una tradizione ricca e antica. L’idea delle acque curative è rintracciabile nel “Wiji Sawiji Mulane Dadi” o “The World Arose from Singularity”, che è il testo di un’altra stanza dello stesso mantra. Nel booklet ho usato la traduzione di una grande studiosa di letteratura giavanese, Nancy Florida, e ho discusso le mie impressioni e i miei sentimenti a riguardo. Le ultime righe descrivono l’atto di leggere nell’acqua o, come dice Nancy, “spruzzare acqua dalla bocca come in una sorta di benedizione”. Ho registrato la parte vocale seduta vicino a un ruscello nel giardino di Mell Dettmer per sentire la mescolanza tra l’atto del cantare e lo scorrere dell’acqua.

L’album ha un suono singolare, perfettamente architettato ed essenziale allo stesso tempo. Com’è stato il processo di scrittura?

Ti ringrazio davvero per le belle parole. “Her Sword” è stata scelta tra una serie di pièce che originariamente erano trasposizioni di poesie Sufi calate in ambientazioni musicali tipiche dei gamelan di Giava Centrale e sundanese. Ho lavorato molto sulle melodie, sulla comprensione dei testi e sul contesto strumentale, anche grazie a degli ottimi collaboratori. Il processo è iniziato in modo piuttosto spontaneo, ma poi c’è voluto molto tempo e un lungo dialogo con gli altri musicisti per renderlo ciò che è attualmente.
Le parti basate sul kidung sono invece venute fuori piuttosto velocemente, è stato come strutturare un rito per musicisti: “Turning Inward” è ispirata al pathetan (una melodia giavanese a metro libero che esprime l’essenza di un determinato modo o pathet) e “Sarira Tunggal” è un antico approccio cinese al kidung. Durante le registrazioni è stato interessante condividere con gli altri esperienze sull’invisibile e l’ignoto, ma anche solo poter comunicare con la musica gamelan, che tutti noi amiamo.
Con Mell abbiamo lavorato molto sull’editing, soprattutto per evidenziare le micro-intonazioni di voce e strumenti. In quel periodo sentivo che prendere coscienza di questo aspetto mi avrebbe indicato la strada per raggiungere uno scopo spirituale attraverso la musica.

In The Face Of The Earth c’è una traccia, “Tavaf”, in cui canti un gazal del poeta e mistico persiano Attar. Qual è il tuo rapporto con questi testi? Giocano un ruolo importante anche in Atria?

Il nome Atria è riferito al poeta Attar e all’idea di essenza o profumo (dalla radice araba “atr-“). Sono stata attratta da questa parola dal momento in cui mi è apparsa in sogno nel 2007 mentre lavoravo con Hossein Omoumi, il mio maestro di musica persiana. All’epoca stava scrivendo una composizione tratta da un poema di Attar e abbiamo registrato una pièce chiamata “Voices Of Spring” o “Āvā-ye Bahār”. Anche la poesia di “Her Sword” è presa da Attar ed esprime una sorta di disperazione amorosa, un tormento interiore che è letteralmente dato in pasto al pubblico. Qui soggetto, oggetto e azione si dissolvono nell’amore e l’unica consolazione è un parziale annientamento dell’essere. Per quanto riguarda Attar, credo che gran parte del suo annullamento fosse invece rivolto al suo idolo, il grande martire Al-Hajjaj.

L’inserto dell’lp di Atria contiene un disegno che sembra una sorta di mandala molto complesso. Mi ha incuriosita parecchio. Puoi spiegarci, almeno in parte, il suo significato?

Il booklet all’interno dell’lp contiene le partiture calligrafiche di tutti i pezzi, che possono essere lette anche come dei talismani. Sono molto interessata al modo in cui amuleti, simboli e codici sono collegati alla musica e alla poesia. Le tematiche che stanno dietro ai talismani sono universali: la ricerca dell’amore, della salute e della saggezza.

Tu e Faith Coloccia avete lavorato insieme all’artwork di Atria e all’aspetto visivo della tua performance/installazione “Anchor Zero”. Com’è nata questa collaborazione? Trovo molti punti in comune tra te e Faith (la passione per i gender studies, il culto della divinità femminile, un approccio intellettuale e spirituale alla musica…).

Io e Faith siamo amiche da anni, ma questa è stata la prima volta che abbiamo lavorato insieme dai tempi di Mare Decendrii. L’evento si è basato su un gigantesco rituale nella casa dove io e Eyvind viviamo a Seattle. Faith e Aaron hanno portato enormi fogli di carta, bottiglie d’inchiostro e un grande pennello da parete che apparteneva al nonno di Faith. È nata una sorta di danza in cui lei guidava il pennello sulla pagina o lo premeva forte in risposta al mio respiro e alla mia voce. Le immagini che ne sono venute fuori sono diventate la copertina di Atria e parte della scenografia per la cantante che cammina in “Anchor Zero”. Penso che questa collaborazione riveli qualcosa sul nostro interesse per l’inconscio e sul suo ruolo nelle incarnazioni e nelle materializzazioni.

Come ha interagito la gente con l’installazione di “Anchor Zero”? Hai qualche aneddoto da raccontarci?

Ho svolto molte lezioni con i gruppi più disparati al Frye Art Museum. Una era focalizzata sul trovare la voce nello spazio come mezzo per prendere coscienza di un sé “mutevole” attraverso l’ascolto; un’altra era incentrata sulla danza, in collaborazione con una mia collega del Cornish, Alia Swersky. Un’altra ancora era un workshop dove si prendeva il polso come punto di partenza per l’improvvisazione, ponendosi domande sulle relazioni tra tocco, medicina antica, immagine e voce.
Una delle cose più divertenti che sono successe in quei giorni è stata l’arrivo a sorpresa di Claudia Maerzendorfer e Nik Hummer da Vienna. Mi avevano aiutato con il video dell’installazione che Claudia aveva girato qualche mese prima, e sono stati con noi a Seattle per una settimana. Grazie a loro siamo riusciti a chiudere il mese al Frye con una performance, interagendo con ogni stanza dell’installazione. Nik aveva delle piccole casse autocostruite e le usava per far risuonare un grande tamburo a cornice persiano, il “daf”. Il mio momento preferito è stato quando nella stanza delle partiture-talismano di Atria io, Claudia e la mia amica violoncellista Lori Goldston ci siamo sedute in un triangolo e abbiamo cantato una versione estemporanea di “Ingsun”, respirando e interagendo ritmicamente con sussulti e brusii. Ho sentito come se un po’ di quell’annullamento di cui parlavo prima venisse restituito a me e alle partiture.

Il canto giavanese usa spesso una timbrica nasale e l’emissione del suono sembra privilegiare la parte alta della testa (e quindi le alte frequenze). La tua voce è invece più bilanciata e universale, e mostra coloriture vicine alla musica persiana. Come hai costruito la tua idea di suono? Ci sono delle voci che ti hanno ispirata nel tempo e delle tecniche che ti hanno aiutata più di altre?

Amo la voce nei suoi elementi qualitativi e quantitativi. La musica vocale di Giava è piuttosto vasta e variegata: anche all’interno degli stili che ho studiato ci sono molte differenze timbriche, a seconda dei vari stati emotivi che esprimono. Sono poi da sempre affascinata dalla relazione tra timbro e intonazione, come pure dal modo in cui gli spostamenti timbrici vocali creano delle risonanze, anche solo interagendo con la materialità degli oggetti metallici. Ad ogni modo alla base di tutto c’è una profonda empatia con la voce di mia madre che mi ha accompagnata fin da bambina. Nel corso della mia vita ho trasferito quell’esperienza nel rapporto con molte altre voci e spesso ho sentito l’apertura di un canale “mimetico”, ossia una forma d’empatia e identificazione vocale che sfugge alla logica. Al momento sto studiando con Thomasa Eckert a Seattle, lei ha un orecchio estremamente fine che le permette di utilizzare delle tecniche nuove e singolari, sto imparando molto da lei.

Com’è nato il tuo interesse per la musica giavanese? Quali aspetti di questa cultura e musica ti interessano di più?

Credo di essermi avvicinata alla musica e alla cultura giavanesi con uno spirito non lontano da quello di Harry Partch, un po’ da anarchica, un po’ da senzatetto (ride,ndr). La prima volta che sono arrivata a Giava e a Bali nel 1995 mi sono persa nella vita di quei luoghi, ai margini di quella società. Più ci entravo dentro e più mi sentivo a casa, soprattutto scoprendo il misticismo delle loro poesie e dei loro suoni. Al momento sono immersa nella scena gamelan del Nord America, con le sue numerose ramificazioni che riportano dritte alle origini. Ci sono così tante grandi persone in questo ambiente, che insegnano, scrivono e creano nuova musica a Seattle, Berkeley, New York, Vancouver e Toronto. Sono davvero fortunata ad avere l’opportunità di suonare con alcuni di loro.

Al momento c’è una scena contemporanea e sperimentale interessante in Indonesia? E in Iran?

La creatività e la potenza delle scene sperimentali indonesiane mi sorprendono ancora oggi. Sono stata fortunata a vivere alcune esperienze straordinarie avvenute lì alla fine degli anni Novanta nell’ambito del teatro, della danza, della performance, della musica contemporanea e underground, del cinema sperimentale. Gente venuta fuori dal giro di Rendra (drammaturgo e attivista che ha favorito l’occidentalizzazione del teatro giavanese), dal Teater Payung Hitam, poi Slamet Gundono (noto artista del wayang, il teatro delle marionette giavanese), il New Jakarta Ensemble (che propone un connubio tra la tradizione occidentale classica e quella minang, di Sumatra Ovest), grandi concerti punk e black metal, compositori che lavoravano con il giro di Pak Sadra, la coreografa Gusmiati Suid e Gumarang Sakti (compagnia di danza e arti marziali di Sumatra), il Teater Utan Kayu e molte altre menti creative e geniali che mi hanno ispirata. Più di recente, negli Stati Uniti, ho avuto l’occasione di lavorare con Suprapto Suryodarmo in Massachusetts e con Peni Candra Rini, che ha collaborato molto con Rahayu Supanggah dell’Opera Jawa. Ho avuto contatti con Wayan Sadra e ho assorbito il suo approccio al sindhenan (solo femminile di voce nel gamelan), alla libera improvvisazione e alle relazioni tra testo e melodia.
La scena contemporanea iraniana è famosa, specialmente per quanto riguarda il cinema, la musica e l’arte. Io sono stata più a contatto con la musica, che lì ha una tradizione forte. Mi interessa il lavoro di Alizadeh, le collaborazioni tra Ali Samadpour e Afsaneh Rasaii, il tar di Poursangari, il setar di Sepideh Meshki, e molta gente della diaspora che fa cose incredibili come i fratelli Tabassian a Montreal. Anche Eyvind si sta dando da fare in ambito persiano, come nel suo disco con Amir Koushkani e nel suo concerto di ney per Hossein Omoumi.

A proposito, tu e Omoumi avete suonato per il Dalai Lama l’anno scorso… 

È stato chiaramente un grande onore e un’enorme gioia essere nello stesso luogo con il mio Ostad, la mia cara amica e mentore, la scrittrice iraniana Fatemeh Keshavarz, e questo gigante spirituale. L’incontro era stato inizialmente pensato come uno sguardo iraniano su Rumi (il fondatore della confraternita sufi dei dervisci rotanti), perché il Dalai Lama era incuriosito da lui ed è amico di un importante filantropo dell’Università del Maryland. Lo stesso giorno c’è stato anche un discorso di pace con la vedova di Anwar Sadat (politico e militare egiziano, premio Nobel per la pace), Jehan Sadat, che ho incontrato! Ma in qualche modo il programma è cambiato, allargandosi e divenendo decisamente multisfaccettato, un grande incontro tra Buddismo e Sufismo. Mi è stato chiesto di recitare il Neynameh, l’inizio del Masnavi di Rumi (una sorta di Corano persiano) e di cantare una parte del Masnavi con Ostad Omoumi.

At Temple Gate è un disco affascinante, oscuro e crudele, ma anche profondamente spirituale. Cosa ha ispirato un suono così pervasivo? Io l’ho trovato affine a una parte di quella scena post-metal sperimentale a cui tu e Eyvind siete piuttosto vicini (Sige, Stephen O’Malley,  Daniel Menche, ecc).

Ti ringrazio per l’apprezzamento, quello è un disco molto importante per tutti noi. “Faites Le Mal” di Artaud è una delle poesie preferite di Eyvind e l’opera era al centro di un progetto più ampio, una composizione neo-confuciana proprio su “Faites Le Mal”. Per me questo tipo di sonorità che abbracciano distorsioni, amplificazione ed effetti sono un modo per sfuggire alla schiavitù della meccanizzazione del contesto musicale. Penso che questo tipo di approccio sia molto familiare agli amici che hai nominato, cresciuti in varie scene underground negli anni Ottanta e Novanta. Mi ricordano anche la me dell’epoca, a quattordici anni, quando portai a casa un disco degli Skinny Puppy e dissi a mia madre: “Ascolta, questa è musica industrial!” e lei mi rispose: “Ok, si, ma questa è la vera musica industrial”, e tirò fuori un disco di Harry Partch, Delusion Of The Fury.

Jessika Kenney, Eyvind Kang e Hyonhee Park

Mi parli un po’ del tuo lavoro con i field recordings e l’elettronica? È stata una piacevole sorpresa scoprire quest’aspetto della tua musica.

Molti di questi elementi vengono dal mio lavoro, ma è stato altrettanto importante l’aiuto di una maestra come Mell Dettmer. Lavorare con lei per Atria e “Anchor Zero” è stata una benedizione incredibile. Mell è una fantastica sound engineer e il nostro dialogo durante il processo di registrazione, editing e missaggio è stato davvero proficuo per me e per la musica.

Vivi ancora sull’isola di Vashon (vicino Seattle, ndr)? Tempo fa ho letto un articolo in cui un giornalista la descriveva come una sorta di enclave creativa immersa nel verde.

Ora mi sono trasferita a Seattle! Mi mancano la magia e la quiete di Vashon, ma sono felice di assorbire l’energia creativa di Seattle e poi qui ho l’opportunità di insegnare.

L’idea del “suono e la sua ombra” dietro ad Aestuarium mi ha davvero colpita. Come pensi vi stiate evolvendo tu ed Eyvind nel tempo?

Io ed Eyvind condividiamo una visione simile riguardo alla vita dei suoni fin dal nostro primo incontro. È una sorta di mutua devozione alla musica, ma il modo in cui comprendiamo e riceviamo quest’esperienza sta cambiando nel tempo. Al centro del lavoro di Eyvind c’è l’idea del suono nello spazio contrapposta a quella del suono nella mente, mentre io sono più interessata a come viviamo il suono e a come esso esiste nel mondo ultraterreno, spirituale.
Al momento la discussione si sta spostando, entrambi siamo impegnati in studi paralleli di filosofia e storia della medicina e stiamo cercando di trasporre alcune delle nostre conversazioni in forma scritta e in musica.

Kang - Kenney

Cosa stai facendo al momento, hai qualche progetto in cantiere per i prossimi mesi?

Sono appena tornata da un viaggio in Indonesia dove ho intervistato dei guaritori del luogo e da un tour europeo con Eyvind che ha toccato il Belgio, la Polonia e Berlino. Al momento sto lavorando su una nuova pièce commissionatami da Paul Taub, flautista e docente al Cornish College e uno dei membri fondatori della Seattle Chamber Players, per flauto, voce, contrabbasso e percussioni. Mi piacerebbe realizzare una versione stereo della partitura di Anchor Zero il prossimo anno! Poi c’è in progetto la registrazione di un disco di gamelan tradizionale con Giovanni Sciarrino a Torino.
Speriamo di riuscire a passare presto anche in Italia o, meglio, che tu venga a trovarci a Seattle!

Discografia:

Jessika Kenney & Eyvind Kang – Aestuarium (Endless Records, 2005 / Ideologic Organ, 2011)

Jessika Kenney & Eyvind Kang – The Face Of The Earth (Ideologic Organ, 2012)

Jessika Kenney & Eyvind Kang – Live In Iceland (Not on Label, 2013)

Kenney, Kang, Park – At Temple Gate (Weyrd Son Records, 2014)

Jessika Kenney – Atria (Sige, 2015)

Gamelan Pacifica – Nourishment (Blind Stone Records, 2015)

Collaborazioni:

Black Cat Orchestra – Mysteries Explained (Irene Records, 1998)

Black Cat Orchestra – Long Shadows at Noon (Yoyo Recordings, 2002)

Asva – Futurist’s Against The Ocean (Web of Mimicry / Dos Fatales, 2005)

Asva – The Third Plagues / A Trap for Judges (Enterruption, 2005)

Wolves In The Throne Room – Two Hunters (Southern Lord, 2007)

Jarrad Powell – Stonehouse Songs (Present Sounds Recordings, 2007)

Stirring Autumn – Selected Works of Sawai Tadao (Falconer Koto World, 2008)

Hossein Omoumi – Voices of Spring (Haft Dastgah Music, 2009)

Sunn O))) – Monoliths & Dimensions (Southern Lord, 2009)

Sun City Girls – Funeral Mariachi (Abduction, 2010)

Gamelan Madu Sari – Hive (Songlines Recordings, 2010)

Lou Harrison – Scenes From Kavafy (New World Records, 2010)

Wolves In The Throne Room – Celestial Lineage (Southern Lord, 2011)

Mamiffer – Mare Decendrii (Conspiracy Records / Sige, 2011)