IGORRR, Spirituality And Distortion

strano 

(strà-no)

agg., s.

ETIMO Lat. extranĕum.

1. Difforme dal consueto o dal normale, così da suscitare perplessità, sorpresa o anche curiosità.

Un po’ di anni fa, un mio amico mi passò Nostril e Hallelujah, i primi due album di Igorrr, dicendomi: “Toh, ascolta questo. È strano forte, a te piacerà”. Al di là del fatto che aveva ragione (quegli album mi piacquero eccome), ciò che mi colpì in quel caso e che da allora mi avrebbe sempre colpito riguardo la percezione che le persone hanno della musica di Igorrr, fu il ricorso all’aggettivo “strano”. Non penso sia infelice o denigratorio, al contrario, credo possa essere una reazione genuina di fronte ai pezzi di Gautier Serre, compositore, produttore, esecutore semi-factotum e deus ex machina che si cela dietro al moniker.
Un paio di anni fa mi capitò in sorte di recensire Savage Sinusoid, sempre su queste pagine: amore al primo ascolto, tutto d’un fiato. Andai, pochi mesi dopo, a vedere una loro esibizione dal vivo e ne rimasi a dir poco folgorato.

Fin qui tutto bene, ma, dopo una simile abbuffata, non riuscivo a non pensare alle parole di un altro mio amico, mentre discutevamo entusiasti proprio delle tracce di quel disco: “Fan paura, bellissime, intriganti e mai scontate… Ma cosa può fare ancora per stupire di nuovo, dopo questo?”. Parere giusto, talmente lecito da ficcarmi il tarlo del dubbio nella testa quando ho iniziato a leggere le prime notizie sull’uscita di Spirituality And Distortion.
Mi sono dunque ripromesso di approcciarmi a questo disco nella maniera più disillusa possibile, per quanto non possa certo negare di essere un fan convinto di Serre e compagni, e per quanto, sotto sotto, coltivavo speranze ed aspettative molto, molto alte. Volevo, insomma, stare calmo e rimanere, se non oggettivo, quantomeno professionale durante l’ascolto.
Non ce l’ho fatta.
Dopo esattamente 66 secondi dell’opener “Downgrade Desert” stavo già per prendere a spallate la parete a me più prossima, il controllo corporeo dalla settima vertebra cervicale in su era perso e avevo assunto l’espressione facciale di un corgi lanciato nello spazio, ma, soprattutto, ero sicuro che il meglio dovesse ancora venire.

Come lo stesso autore afferma, questo è stato il suo disco più difficile, ma anche quello più sentito, dal momento che si è fatto completamente carico non solo della composizione e dell’arrangiamento, ma anche della produzione, da cima a fondo; un’impresa davvero eroica, considerando la resa sonora eccelsa e meticolosamente curata dell’album. Serre ha voluto dare alla luce una creatura che fosse sua in ogni aspetto, rimanendo lucidamente al controllo di tutto, come ci si aspetterebbe da chi riesce a intrecciare lingue musicali così diverse fra di loro con rara disinvoltura.

Gli elementi che costituiscono le fondamenta dell’album sono segnalati dal titolo. Da una parte, la spiritualità, rievocata da una ricerca curiosa sulle sonorità arabeggianti, dalle più stereotipate insistenze sulle scale minori armoniche, fino a delle genuine comparse di strumenti etnici (con relativi artisti ospiti). Dall’altra, a formare la colonna portante distorta delle canzoni, c’è una massiccia struttura di matrice estrema, con arrangiamenti di chitarra a condurre la maggioranza delle composizioni e un inarrestabile Sylvain Bouvier a macinare blast beat dietro le pelli. Non c’è frammentazione, solo continuità e coerenza che attraversa le quattordici canzoni, raccogliendo gli stilemi che hanno da sempre caratterizzato la poetica della band, che porta avanti ora le citazioni barocche con clavicembalo e archi, ora le influenze popolari e balcaniche affidate alle parti di fisarmonica, fino a focalizzarsi sull’alternanza tra le situazioni più estreme e quelle più inaspettatamente ambient, corali o elettroniche. Spiccano, per efficacia contenutistica e portata di originalità, “Parpaing”, che vede protagonista l’ospite d’eccezione George “Corpsegrinder” Fisher abbinato a un arrangiamento strumentale 8-bit (accoppiata tanto spiazzante quanto ruffiana ed efficace), l’immensa “Himalaya Massive Ritual”, che vira ora su sonorità black metal, ora su aperture suggestive, che fanno brillare le doti canore di Laure Le Prunenec e la chiusura di “Kung-fu Chèvre”, in bilico tra la malinconia teatrale e l’ultima zampata di aggressione sonora prima di calare la serranda.

La materia musicale è densa, ma sapientemente ordinata, tenuta sotto controllo e dosata con premeditazione; la visione che guidava Savage Sinusoid, di per sé già complessa e raffinata, è stata sfruttata come un laboratorio sperimentale su cui costruire una nuova certezza. In Spirituality And Distortion tutto ha un senso e tutto ha il proprio posto, Serre è riuscito a trovare un equilibrio formale talmente difficile da concepire da rendere ancora più strabiliante la realizzazione di qualcosa di così ardito.

C’è abbastanza materiale da tenere occupato anche il più avido degli ascoltatori per innumerevoli riproduzioni, sufficienti stimoli da mantenere altissima la soglia attentiva per una durata non banale (oltre cinquanta minuti). Non una toppa riempitiva, non una soluzione prevedibile che faccia capolino. Lo stupore si manifesta di fronte a un capolavoro estremamente maturo, un punto fermo che stabilisce lo stato dell’arte nella carriera di Igorrr: individuare delle barriere e delle antitesi, scomporle, reinventarle, unirle.

Strano, meravigliosamente strano.