Anatrofobia: ricostruire a partire da un’assenza

Intervista a Luca Cartolari, bassista (Anatrofobia, Ea Silence), informatico softwarista con la sua MediaDucks Snc, appassionato di software libero e d’informatica musicale (cSound).

Partiamo dal tuo basso, un fretless Streamer Warwick e dal tuo approccio stilistico: quanto sei legato alle potenzialità timbriche di questo tuo strumento? In sede compositiva ti avvali anche di altri strumenti, come chitarra o pianoforte? 

Luca Cartolari: Il fretless Streamer è in effetti lo strumento che suono da più tempo e a cui sono particolarmente affezionato. L’ho utilizzato in tutti i dischi che ho realizzato, anche se non è stato e non è l’unico. In Canto Fermo, ad esempio, ho ampiamente usato il 6 corde GPS Thumb BO, sempre della Warwick. Il fretless è comunque lo strumento con cui riesco ad esprimermi nel modo più personale e maggiormente soddisfacente. Ha meravigliose potenzialità melodiche e come tu giustamente suggerivi, timbriche. Mi permette di cantare, intonare ogni singola nota, ora raggiungendola, ora abbandonandola, di curare con particolare attenzione l’attacco e la durata di ogni suono. È molto duttile timbricamente. Può avvicinarsi ai sofisticati strumenti ad arco della nostra tradizione, suonandolo con l’archetto di un violoncello o con l’E-bow, ma suggerisce anche analogie con strumenti arcaici e primitivi come il Berimbau, per il fatto che spesso lo si suona ‘una corda alla volta’. Può essere assimilabile ad una percussione intonata, percuotendolo, strappandolo, strofinandolo. È, però, soprattutto uno strumento elettrico, potente, effettabile e manipolabile facilmente anche attraverso elaborazioni digitali. Mi piace creare con il fretless “masse sonore” dai contorni poco chiari, incerti e vaghi, che però portino con sé ricordi di suoni conosciuti. Nel cercare dei modi per produrre queste “masse” ho sempre avuto particolare attenzione all’uso del computer in musica, oltre che come aiuto per la composizione e la notazione musicale. Negli ultimi anni, infatti, compongo oltre che con il 4 e il 6 corde, direttamente con programmi di notazione musicale come “MuseScore”, o con interfacce grafiche di cSound. Il processo di scrittura e formalizzazione musicale è un processo a cui tengo molto e che, dal mio punto di vista, non finisce mai. È un continuo tornare e lasciare il testo scritto per il suono vivo, rifatto mio in maniera ogni volta diversa.

Ho avuto il piacere di recensire il tuo ultimo lavoro con gli Anatrofobia, Canto Fermo, disco che smussa la vena punk e prende una direzione più intimista, cameristica, lirica. Che peso ha avuto l’inserimento della voce (Cristina Trotto Gatta) e la contemporanea assenza dei sassofoni di tuo fratello Alessandro?

È stato grazie ad Alessandro che Cristina è entrata a far parte di Anatrofobia. Ho sentito come cantava e recitava in Masche e in altre registrazioni. Ne sono rimasto fortemente colpito. Ha un approccio istintivo e diretto alla pratica musicale, apparentemente molto diverso dal nostro, ma ha il dono meraviglioso del garbo, e “il garbo è tutto”, scriveva il grande Stefano Scodanibbio, citando Edoardo Sanguineti. Cristina è la persona con maggior garbo che abbia mai conosciuto: non si atteggia, non finge, riconosce i suoi limiti e su quelli fa leva. Ascoltando Cristina, i suoi testi, ne avverti la sincerità, la fragilità, la profonda umanità: soprattutto aggiunge alla nostra musica un’ulteriore modalità comunicativa. Per alcuni anni abbiamo provato in quartetto (dalla metà del 2015, se non mi ricordo male), senza riuscire ad arrivare a una sintesi convincente. Alessandro ha quindi deciso di dare priorità ad altri progetti musicali e ci siamo così ritrovati nuovamente ma diversamente in tre.  Come spesso capita, e nella mia vita mi è dolorosamente capitato spesso, abbiamo dovuto ricostruire a partire da un’assenza, da ciò che non c’era più. In quel momento ha preso forma il suono di Canto Fermo. La musica ha incominciato a prendere vita, ad emozionarci, a creare nuovi inediti ponti. Abbiamo così contattato Paolo Cantù, con cui volevamo collaborare da molti anni e che per sensibilità e storia poteva essere la persona giusta per creare una musica che fosse più accogliente e vicina alla “sensibilità anni ‘90” di Cristina.

Luca, una caratteristica evidente della tua musica pare essere, accanto ad un certo grado di articolazione della complessità, una immediatezza naïve che arriva subito all’ascoltatore. Leibniz sosteneva che non c’è libertà senza due requisiti fondamentali, ovverosia spontaneità ed intelligenza. Vuoi dirci qualcosa a tal proposito?

Grazie per questa domanda. Hai decisamente messo a fuoco ciò che per me è centrale nel fare musica, e non solo. Dario Buccino, carissimo amico, grandissimo musicista e compositore, ascoltando in anteprima “Mille”, il pezzo che chiude la prima facciata di “Canto Fermo” e a cui sono particolarmente legato (come hai intuito nella tua attenta recensione) mi ha scritto: “Fin dai primissimi suoni, ha semplicità senza perdere di ricchezza. Ha immediatezza senza perdere di mistero”. Vorrei che la musica che faccio non risultasse più complessa o difficile di quello che serve per comunicare, per raggiungere chi ci ascolta. Se il concetto che desidero esprimere è complesso, allora l’articolazione, la difficoltà argomentativa è necessaria, ma non sopporto chi introduce neologismi tecnici per esprimere ciò che può essere espresso con maggior semplicità di linguaggio. So bene che l’analogia linguistica è fuorviante, che l’ascoltatore ideale è un’astrazione. Probabilmente è solo una questione di sincerità: sforzarsi di essere quello che si è. La musica che faccio deve in qualche modo rappresentare il microcosmo che sono o meglio che siamo: portarsi dentro le contraddizioni, la pluralità di attitudini, di stili, le regole, il caso, la complessità e la semplicità. Deve parlare della nostra vita, senza sbandierare cose che non siamo, possibilmente senza manierismi, con il cuore e con il cervello. È un equilibrio difficile e precario. L’immediatezza naïve a cui tengo molto – chi mi conosce sa che io sono così – la ottengo in diversi modi, ma spesso con un semplice profilo melodico che mi emoziona, che mi parla, che mi ricorda mio padre, le montagne, il soffio del vento, le passeggiate nel bosco con il mio cane, la meraviglia e le perdite della vita; da cui incomincio a costruire per non sciupare, per non disperdere, per ritornare ciò che sento. Questa operazione di “resa musicale”, che per me è poi sempre collettiva, è un “noi” che fa musica, può allontanare o avvicinare, ma cerca di essere libera, onesta e sincera.

Un disco forse poco conosciuto, e che meriterebbe maggiore risonanza, è EA Silence, Cono Di Ombra E Luce, uscito nel 2008 per Amirani/Grim/Media Ducks. Lì, a parte la formazione atipica (basso/elettronica, tromba/flicorno e fagotto/controfagotto), la fanno da padrone polifonia, cromatismo, orchestrazione classica, il tutto in perfetta sintonia con una poetica rumoristica di grande puntigliosità. È un lavoro fortemente meditativo ed evocativo, pieno di mezze tinte, di sottili sfumature e di non-detto che, a mio avviso, potrebbe affascinare tanto chi sente nelle sue corde Sofia Gubaidulina quanto un appassionato di Wadada Leo Smith. Ci vuoi dire com’è nato questo progetto e quali processi compositivi/improvvisativi sono stati adottati dal trio?

L’EA Silence è uno dei progetti che Alessio Pisani e Mirio Cosottini hanno dato vita nei primi anni 2000 come GRIM, Gruppo di Ricerca e Improvvisazione Musicale. Alessio, con cui avevo collaborato in Anatrofobia in Lecosenonparlano e in Tesa Musica Marginale, aveva ritrovato degli interessanti punti d’incontro tra il mio modo di suonare il basso elaborato elettronicamente e la direzione che lui e Mirio stavano intraprendendo. Così mi chiese se ero interessato ad una nuova collaborazione. Da lì nacque il trio. Tutti i brani di Cono Di Ombra E Luce nascevano da partiture, spesso grafiche, che cercavano di coniugare momenti strutturati con momenti più aleatori: improvvisazione strutturata e strutture aperte. A mio parere però, l’aspetto più singolare e prezioso del trio non è tanto o non è solo in questo pur interessante punto di partenza, ma la cura nel dettaglio, nell’attenzione a voler raggiungere un ben preciso suono complessivo. Il fagotto/controfagotto di Alessio e la tromba/filicorno di Mirio nel disco suonano come una voce sola, anche quando le loro linee divergono in una polifonia, con un’estrema attenzione all’emissione del suono, agli attacchi, ad ogni movimento acustico. L’approccio è quello di un gruppo da camera “classico”, severo, senza sbavature, dove i brevi frangenti solistici non si disperdono mai nell’autocompiacimento del momento, ma sono sempre strettamente legati all’idea compositiva. Sotto e a fianco del duo acustico si muove il mio basso elettrico, in realtà quasi mai riconoscibile come tale, ma che guida con la sua gestualità le elaborazioni elettroniche generate in tempo reale e da me appositamente programmate in cSound, linguaggio di cui sono appassionato. L’elettronica amplifica le ombre e le luci dei due solisti, preservandone magicamente i rimandi ad un barocco immaginario e futuribile. Molti pezzi erano poi guidati da immagini, disegni, testi che dovevano suggerire un’ambientazione e favorire il mantenimento della concentrazione durante l’esecuzione.

Un altro aspetto peculiare del disco è il luogo e il modo in cui è stato registrato: in diretta, compresa l’elettronica, senza sovraincisioni, nell’antica sinagoga di Ivrea (la cui foto della scala d’ingresso fa da copertina al disco), sfruttando il riverbero naturale del luogo.

Un’ultima domanda: tra le funzioni attribuibili all’arte (estetica, espressiva, espiatoria, didattica, esortativa, trasgressiva, ritualistico-magica) quale incontra maggiormente il tuo animus?

Con tutta onestà non credo di saperlo realmente. Non voglio comunque eludere la tua domanda che mi offre l’opportunità di precisare meglio quello che sostenevo riguardo all’immediatezza naïve. Per me la musica è innanzitutto una passione e come tale, parafrasando Schopenhauer (raccomando per gli appassionati il libro del mio caro e amato professore, Giovanni Piana, filosofo della musica tra i più importanti del Novecento, ‘Teoria del sogno e dramma musicale. La metafisica della musica di Schopenhauer’) ha motivazioni profonde che non sono del tutto auto-sondabili, né tanto meno, più di tanto, modificabili: “è certo che un uomo può fare ciò che vuole, ma non può volere ciò che vuole”. Per arrivare al merito della tua domanda e continuando sul sentiero che ho seguito in questa intervista, potrei riconoscermi nella funzione espressiva, ma subito vorrei precisare che sono anche un grande appassionato di Stravinskij e della sua poetica formalistica, che poi a ben vedere tanto formalistica non era, quindi innanzitutto estetica ed espressiva. La musica è per me senza dubbio una disciplina, una pratica costante che, e lo dico da ateo e materialista metodologico quale io credo di essere, ha però paradossalmente a che fare con la propria dimensione spirituale, con ciò che è al di là o al di sotto delle possibilità espressive del nostro linguaggio. La pratica strumentale, i concerti o anche solo l’ascolto di un bel disco possono diventare momenti di raccoglimento, di celebrazione e di rito. Non vorrei però dare l’idea di un’eccessiva seriosità. Le funzioni espiatoria, didattica o esortativa non credo che mi riguardino più di tanto. La musica è prima e al di là della sua dimensione artistica (dimensione che tra l’altro non è poi così facile da definire e recintare) divertimento, gioco, ballo, vita. Da amante dell’art-rock e del rock progressivo non ho mai sopportato le polemiche verso il pop, la musica da ballo, la new wave degli anni ‘80, tutte musiche che accompagnano frequentemente le mie giornate. Per quanto riguarda la dimensione trasgressiva (nel senso ironico?), il discorso si farebbe ancora più lungo, così vale anche per la dimensione politica. K. mi diceva sempre divertito: “Certo che se quel chitarrista non fosse un musicista sarebbe sicuramente diventato un serial-killer”. Probabilmente aveva ragione; ma forse vale anche il contrario. Le megalomanie musicali non sono poi così dannose. Sicuramente fanno meno danni di quelle politiche o economiche. Ogni tanto sorridendo e scherzando mi chiedo: ma se tutti facessimo o ascoltassimo un po’ più di musica non faremmo semplicemente meno danni?