HEROIN IN TAHITI, Valerio Mattioli

Heroin In Tahiti

Contattiamo via mail il duo romano ma, ahinoi, il solo Valerio Mattioli trova il tempo di dialogare a distanza con le nostre domande. Lo stile è schietto e senza troppi giri di parole. A latere ci viene subito in mente una considerazione: è quasi incontestabile il fatto che molte nuove e interessanti realtà musicali indipendenti italiane siano collegate al cinema, come conferma in parte anche Valerio. Certo non c’è solo questo elemento a ribollire nel calderone dell’underground “nazionale”, vedi la mixtape curata dal nostro Michele Giorgi su Cvlt Nation. Tanto basta in ogni caso per ribadire come la situazione odierna sia in continua evoluzione e in costante crescita, anche mediatica. Enjoy… 

Partiamo dal nome, che cela un esotismo “deviato” e affascinante secondo me, come vi è venuto in mente di chiamarvi a questa maniera?

Valerio Mattioli: Detesto questo nome, ma come al solito è il risultato di un tedioso processo a eliminazione, che non credo possa interessare più di tanto. Quasi sempre, dietro le scelte dei nomi si celano storie di assai scarso fascino: ecco, è il nostro caso.

Ascoltando il disco Death Surf (Boring Machines), si ha la netta sensazione di avere a che fare con una rimasticatura in chiave più melodica di codici musicali vicini al “bruitismo”. A me ricordate, tra le altre cose, anche una versione narcotizzata dei Man Or Astroman. Sto esagerando?

Quello che chiami bruitismo ha avuto e continua ad avere un’enorme importanza per me, sia dal punto di vista storico che da quello, più prosaico, delle musiche che ho seguito negli ultimi dieci anni e più. Adesso tutti i vecchi noisers si sono messi a fare techno o new age, il che è stato divertente per un po’, ma più passa il tempo più mi sembra… ridicolo. Per quanto riguarda i Man Or Astroman: penso fossero l’unico gruppo surf degno di nota nei ’90, l’epoca d’oro del garage punk. Non erano tra i miei preferiti, ma conservo un bellissimo ricordo di quel periodo e di quelle musiche.

Come vivete la vostra posizione di giornalisti ed operatori culturali, anche in virtù del fatto che la musica la “giudicate” per lavoro?

Con… indifferenza? Guarda, stiamo parlando di un ambito talmente piccolo, talmente periferico e talmente di nicchia che nemmeno mi viene da parlare di conflitto d’interessi. Mi viene solo da pensare ai soldi persi, ecco.

Io credo che la vostra non sia solo “psichedelia nera”, e neanche banale surf music certo, ma un cangiante tableau vivant dove gli elementi interagiscono e si confondono fino a materializzarsi in forma di miraggio, siete d’accordo?

Non saprei, a me “psichedelia nera” sta benissimo: suppongo sia un complimento, giusto?

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Raccontateci delle vostre passioni cinematografiche, ci devono essere per forza visto la musica che componete, e diteci quanto hanno influito sul progetto.

Guarda, tra i due quello che va al cinema è Francesco. Per quello che mi riguarda, non ho particolari passioni in tal senso, ma capisco quello che vuoi dire. Ora: non so se per te è lo stesso, ma certe atmosfere, certi colori, certi suoni e certe visioni, fanno praticamente parte del bagaglio involontario di ogni italiano. Non sono un particolare fan degli spaghetti western, e però ne ho visti a decine perché li davano in TV e mio padre se li guardava. Per dire, non ricordo nemmeno la trama de “Il Buono, Il Brutto, Il Cattivo”, ma ricordo benissimo quello che trasmetteva: lerciume, polvere, sole accecante, silenzi infiniti, e su tutto il fischio di Alessandroni. Ho avuto una sbandata per il giallo all’italiana quando tornò in auge una decina d’anni fa, ho riscoperto Jacopetti quando tutti gli altri l’hanno riscoperto, ma a monte di questo c’è – come dire – una questione di DNA. Considera anche che vivo in un quartiere che pare il set di un film di Sergio Leone: magari ha influito.

Ascoltandovi mi sono infatti tornati in mente un paio di articoli pubblicati su Flesh Art (poi Flesh Out) qualche anno fa. In quella misconosciuta rivista, diretta da Fabio Malagnini con la collaborazione di gente del calibro di Antonio Caronia e Alberto Pezzotta, si discettava di cinema italiano di serie B e dei cosiddetti “mondo-movie” ─ s’intervistava anche Ruggero Deodato ─ con riferimento ai vari Gualtiero Jacopetti, Joe D’Amato, Sergio Martino. In “Death Surf” pare davvero di venire catapultati in quei territori oscuri dove le immagini sono cruenti e sadiche. Come fossero dei prolungati titoli di coda di quelle pellicole, ne convenite?

Ricordo abbastanza bene il periodo tra metà ’90 e inizi 2000 in cui si “sdoganò” il famigerato cinema di serie B italiano. Mi pare che fu un effetto collaterale del fenomeno Pulp Fiction, ma nacquero anche riviste interessanti come Nocturno, Il Giaguaro… Come ti ho detto prima, per quel che mi riguarda le assonanze a cui fai riferimento sono per lo più involontarie, anche se noi per primi abbiamo finito per farcene una ragione. Voglio dire, siamo partiti con l’idea di fare “death surf” e siamo finiti a fare altro; suppongo sia una questione di subconscio: senti una chitarra twangy, e prima che suscitarti i Ventures vai con la mente a Morricone. Dopotutto siamo romani.

Noto che c’è una singolare coincidenza in giro in questi ultimi anni, stanno cioè fioccando realtà (fatte le dovute differenze, ci mancherebbe) che si rifanno più o meno agli score (specie del passato) come la vostra, i Ronin, Cannibal Movie, compreso il lavoro solista di Donato Epiro, i Calibro 35, Squadra Omega e Satan Is My Brother. Cos’è, solo un ritorno a quelle particolari atmosfere, o c’è di più secondo voi? 

Posso dirti che la prima volta che ascoltai i Cannibal Movie pensai “cazzo!”. Insomma, noi avevamo fatto un pezzo che si chiamava “Sartana”, e loro avevano “Django”. Ho anche proposto a Ricky degli In Zaire di fare un pezzo intitolato Sabata, così almeno chiudevamo la trilogia. Devo dire che sì, è una coincidenza abbastanza singolare, già Antonio Ciarletta ne ha parlato su Blow Up. La cosa curiosa secondo me è che con gran parte di questi gruppi ci conosciamo di persona, siamo amici pur vivendo in posti diversi, e veniamo tutti da trascorsi di un certo segno. Poi, senza che nessuno avvertisse gli altri, ciascuno ha preso a intraprendere certi percorsi, certi pensieri, suppongo anche certe riflessioni. Detto questo: non so se dietro si celi qualcosa, né posso rispondere per gli altri gruppi sopra menzionati. Non noto grandi affinità con i Calibro 35, ma questo devi stabilirlo tu!

Inutile aggiungere che sarebbe il caso di affrontare un tour in “solo” dopo quello col carrozzone Borgata Boredom di pochi mesi fa, ci state già pensando?

Abbiamo sempre suonato molto dal vivo, e siamo stati in giro anche parecchio. Una volta risolto il dramma della 303 che ha smesso di funzionare, proseguiremo da dove eravamo rimasti.

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