ENNIO MAZZON, Xuan

Ennio Mazzon Xuan

Se ne parla poco, ma Ennio Mazzon possiede una discografia solista di tutto rispetto e ha saputo farsi notare anche attraverso l’attività della sua etichetta (Ripples Recordings), oltre che per il progetto Zbeen nato dalla collaborazione con Gianluca Favaron.

Si può considerare idealmente quest’album come il seguito di Azure Allochiria (2010), da cui eredita la predisposizione per un certo minimalismo elettronico soggetto a infiltrazioni e distorsioni sonore di vario tipo. Xuan si compone all’incirca di tutti quei dettagli che siamo soliti rintracciare nei dischi di sound artist del genere, ma attenzione perché questo non significa che stiamo trattando di un lavoro anonimo o banale. Anzi, la sua personale miscela di rumori programmati e melodie spurie risulta invece molto azzeccata e – nonostante la fatica nell’affrontare una sola traccia di quaranta minuti – ci si rende conto molto in fretta di trovarsi davanti a qualcosa di veramente valido, in cui convivono alla perfezione impulsi sconnessi, schizzi digitali e tutto un insieme di effetti sintetici sviluppati con grande cura. Vengono quindi in mente nomi come Andrea Marutti, Enrico Coniglio e quello degli Zbeen stessi, dato che Ennio rimane in qualche modo vicino a quanto composto con Favaron. Andando più nel dettaglio il disco pare strutturarsi in fasi distinte, caratterizzate individualmente da precisi elementi ricorrenti; ognuna di queste viene poi attraversata da un tema comune, come un filo conduttore dalla forma incostante che lega i vari segmenti in maniera fluida e organica. Sembra essere presente anche qualche field recording, ma non è facile distinguere tra loro i vari elementi. Mentre l’apertura è affidata all’articolazione progressiva di brevi interferenze, che vanno a delineare una situazione dall’aspetto ruvido, acuto e affilato, con lo scorrere dei minuti fa invece la sua comparsa un sottile senso melodico riposto in secondo piano, vaga reminescenza di quelle atmosfere presenti in vecchie composizioni come “The Possibility Of Joy” e “In An Undertone At A Loose End”. Avvicinandosi a metà ascolto, il suono conosce quindi un certo irrobustimento, ed ecco allora che un flusso risonante va a sovrastare con decisione tutti quei rumori accumulati fino a quel punto per poi inglobarli nell’ampia vibrazione che si impossessa del brano e lo conduce per tutto il resto della sua durata, sfumando in una coda dai toni più accesi e infine nel silenzio.

Possiamo dire senza problemi di trovarci in presenza del lavoro più completo e ricercato che Mazzon abbia saputo proporci finora, sicuramente un ascolto molto interessante capace di distinguersi per la sua studiata eleganza. Complimenti.