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LUCASLAVIA, Furnace

Lucaslavia è l’alias del musicista tedesco Stefan Goldmann e Furnace il titolo del clamoroso album di death-ambient edito dalla Macro, sua etichetta fondata nel 2007 assieme Finn Johanssen. Goldmann, figlio del compositore e direttore d’orchestra Friederich (1941-2009), a Berlino è un personaggio ed organizzatore poliedrico, attivo da anni in ambito techno-dance. Quest’anno, in contemporanea ed anche in competizione con la storica rassegna CTM (Club Transmediale), ha organizzato la prima edizione di Strom (elettricità), un mini festival con grandi nomi della scena elettronica tedesca e non solo, ma il vero colpo di teatro è stato quello di essere riuscito ad allestirne la messa in scena in uno dei luoghi più iconici e simbolici della capitale: la Berliner Philarmoniker, sede dell’omonima Orchestra Filarmonica dove già nel 2020 aveva registrato un bel disco dal vivo. Eravamo alla prima serata del 7 febbraio, compiendo una vera e propria fuga dal Berghain: se da una parte abbiamo rilevato una frequentazione certo più borghese e “agée” rispetto al pubblico del CTM, dall’altra l’organizzazione teutonica dell’evento, l’acustica perfetta nei vari ambienti e negli spazi razionalisti dell’edificio a vela (concepito nel 1956 dall’architetto Hans Scharoun, inaugurato nel 1963 in piena Guerra Fredda) con la Sala 1 dalla capienza di 2200 posti, hanno fatto e faranno di Strom un appuntamento ed un palcoscenico imprescindibile per la scena elettronica berlinese a venire.

Dopo questa introduzione “a latere” ci addentriamo nella Fornace che il musicista berlinese ha costruito per noi: undici pezzi di oscura e materica ambient contemporanea, nessun ammiccamento al suo passato IDM ma fiumi di lava incandescente, improvvise sciabolate di suono per un ascolto infine piuttosto meditabondo. L’introduzione di “Mazaron” ci accoglie in un profondo antro squarciato dalla luce di una tromba campionata a Jon Hassell per poi catapultarci nella selva oscura di “Raphalut” e “Calax”, primi vertici di un grande album, a tratti – è vero – brutale, mai però paranoico, anche se quando arriva “Qanath” un salto sulla sedia è impossibile non farlo, volteggia lo spettro dei Painkiller e siamo finiti all’interno di una massa vorticosa, al centro di una tempesta magnetica quando tutt’intorno a noi volano poltrone, televisori e suppellettili! “Piron” non è da meno anche se l’azione è introversa, interna al nostro flusso di coscienza. “Margaleth” è aerea, spaziale, a-gravitazionale, puro suono. “Ignis”: voci distanti, chitarre disturbate, synth digitali in sequenza, sempre e comunque puro godimento acustico. I dodici minuti finali di “Alboreus”, “Dameth” e “Beganic” avvolgono in una esperienza sorprendente, metallica, possenti volumi sonori in continua evoluzione, masterizzati, c’è da sottolinearlo, dal sovrano assoluto degli studi di registrazione tedeschi, Rashad Becker.

In definitiva, dopo una marea di album, ecco il disco della maturità artistica di Stefan Goldmann (classe 1978) non a caso nominato, a luglio, per il prestigioso premio della critica Deutschen Schallplattenkritik nella sezione “musica elettronica”.