Roadburn 2025

Big|Brave

Tilburg (NL), 17-18-19-20/4/2025.

Il Roadburn Festival nasce sul finire degli anni Novanta, focalizzandosi sulla scena musicale stoner rock/metal del periodo, ospitando nelle prime edizioni band quasi ormai dimenticate come Terra Firma, Cathedral, Orange Goblin, Beaver e diventando in breve tempo un appuntamento imperdibile per gli amanti di quelle sonorità. Come succede ai festival che funzionano, anno dopo anno si è espanso arrivando agli attuali 5 palchi principali più svariati collaterali e ampliando lo spettro musicale. Lo dico subito: non è un festival metal e neanche un festival stoner. Ci sono il metal e lo stoner ma anche il folk, la sperimentazione, l’elettronica e il punk, oltre a sotto generi come noise rock, black metal, drone, post-punk. Dell’iniziale pubblico stoner sono (siamo) rimasti in pochi, affiancati da appassionati eterogenei di qualunque età, tendenza musicale e sessuale. Quest’ultima cosa la specifico, perché questo è un luogo dichiaratamente amichevole per LGBTQIA+. Negli anni ha ospitato artist* trans come Uboa, Liturgy, Couch Slut, Agriculture o beniamini come Midwife (quest’anno artista residente, il che significa che ha suonato tutti i giorni) e non sono rari appelli all’amore e al rispetto sui palchi più disparati. Il razzismo non è pensabile, così come idee di estrema destra. La comunità che ruota intorno al festival è fatta di persone di ogni tipo e mal tollera stronzi. Questa premessa per molti può sembrare superflua ma fa veramente la differenza per la vivibilità dei quattro giorni. “Sei fan? Allora ti cedo il mio posto”. “Non ci vedi bene? Vieni qui che ci scambiamo che tanto sono più alto”. Quante volte vi è capitato di sentire una domanda del genere durante un concerto? A me tutti gli anni.

Se quindi l’accoglienza è ottima e il menù variegato, quello che stupisce su tutti i fronti è la resa sonora dei palchi. Durante il concerto di The Bug la forza tellurica della basse frequenze rendeva la respirazione difficile, l’equilibrio sommario e il corretto funzionamento degli organi una lotteria. Probabilmente è uno degli impianti audio migliori al mondo. Sicuramente il migliore che abbia mai ascoltato. E le luci non sono da meno. Nel main stage la visibilità è ottima in ogni punto mentre nei palchi più piccoli con un pochino di pazienza si riesce a trovare la propria posizione ottimale. L’unica regola è quella di non perdere tempo: arrivare un pelo in anticipo e non aspettare la conclusione di ogni set per cambiare palco. Più o meno si riescono a vedere una decina di nomi al giorno macinando qualche chilometro muovendosi tra un palco e l’altro. Ma è tutto a misura di appassionato: l’importante è tenere d’occhio gli orari. Non si sgarra di un minuto rispetto alla tabella di marcia: se c’è scritto 20:30 quello è l’orario di inizio.

Con una media di tre band che suonano in contemporanea dalle 13 all’una di notte è possibile fare un report completo? Ovviamente no. Muoversi nel festival è come affrontare una storia a bivi dove ogni scelta può influire sulla successiva. C’è poi la componente “secret show”, annunciati via app un’oretta prima e che si tengono in uno skate park al chiuso con le band a suonare “in your face” come se fossero in un localino. È bene essere pronti a cambiare i piani e rifocillarsi appena possibile, perché potreste rimanere sotto il palco per molto tempo.

Nei quattro giorni ho cercato di prendere una strada variegata anche se sempre vicina ai miei gusti. Poca roba che non conoscevo (e ce n’era tanta) e molti artisti che avevo già visto. Sto evidentemente invecchiando. Non perché volessi andare sul sicuro ma perché rivedere certe band con quei suoni è un’esperienza più unica che rara. Kuunatic per esempio le vidi a Savona qualche tempo fa e me ne innamorai, ma viste a distanza di due anni e con un suono “grosso” sembravano un’altra band. Invece i Big|Brave ormai sono diventati la mia droga e li vedrei ogni giorno. Eccovi il mio percorso, probabilmente mai uguale a quello di nessun altro.

Oranssi Pazuzu

Suonano tutto il nuovo disco Muuntautuja, che è un mix di kraut e black metal interpretato sia con le chitarre che con i synth. Messi a questo punto del festival servono esclusivamente a stappare le orecchie e lo fanno con forza.

Buñuel

La band italiana ha in formazione Eugene Robinson degli Oxbow come frontman e personaggi come Xabier Iriondo alla chitarra e Francesco Valente alla batteria. L’ultimo disco è una mazzata sui denti esattamente come quelli prima. Dal vivo sono una bella macchina da noise rock con il consueto show striptease di Eugene. Meglio vederli su un palco piccolo, ma il fatto che suonino in uno dei palchi principali è significativo.

Alora Crucible

So già che rilasserò le orecchie con il progetto di musica da camera di Toby Driver, uno dei musicisti più sfigati dell’intera scena “post” mondiale. Ogni suo progetto se lo cagano in pochi e il motivo è che, pur curiosi, non sono certo imperdibili (Kayo Dot a parte, ma dopo tanti anni ormai non se li ricorda proprio più nessuno). Carini e nulla di più.

Kylesa

Dopo varie sfighe personali e circa un decennio di inattività tornano i Kylesa con formazione rinnovata. Oltre ai veterani Laura Pleasants (ora in look total black con tanto di cartucciera da thrasher old school) e Philip Cope troviamo John John Jesse (basso, Nausea) e Roy Mayorga (batteria, Nausea, Soulfly, Amebix). Inutile dire che senza le inutili e dannose doppie batterie e con un’attitudine più diretta la band suona come non ha mai suonato: splendidamente. Scaletta ricca che pesca da tutto il repertorio e tanta voglia di spaccare fanno dello show dei Kylesa uno dei migliori del festival.

The Body & Dis Fig

Il progetto estemporaneo dei The Body con la cantante di origini asiatiche Dis Fig continua a conquistare i palchi di tutto il mondo. Bordate elettroniche suonate come fosse drone metal, sovrastate dalla voce “trip hop” che culla l’ascoltatore ignaro di perdere pian piano l’udito. Se non l’avete ancora fatto recuperate il loro disco, uno dei top del 2024.

Fire!

Ero indeciso fra vedere The Ex o Fire e ho cannato scegliendo questi ultimi. I primi li avevo già visti il secolo scorso, mentre i secondi mi mancavano. In più suonavano in un palco che non avevo ancora visitato in questa edizione. La band del sassofonista Mats Gustafsson suona l’ultimo disco Testament, che non è il migliore della loro storia e risulta sì ipnotica, ma senza coinvolgere granché. Peccato.

Envy

I giapponesi suonano tutto A Dead Sinking Story, classicone della band post-rock screamo. Per cultori del genere “piango in cameretta per le mie disgrazie ma voglio anche dei chitarroni per non sentirmi troppo femminuccia”.

Dame Area

Abbandonando a metà set gli Envy vado a curiosare nella sala vicina e mi imbatto nei Dame Area, duo industrial techno caciarone con testi femministi e basi tamarre. La cantante è molto coinvolgente ma la musica non mi pare molto diversa da quello che si ascoltava in discoteca negli anni Novanta.

The Bug

Torno nel main stage per assistere ad una delle esperienze più totalizzanti di sempre. Kevin Martin si presenta con quattro casse Ampeg e inizia a spostare basse frequenze come se fossero onde energetiche. Il terreno ti si toglieva da sotto i piedi, il corpo prendeva vita autonomamente e più di una volta il pubblico è stato spostato all’indietro dall’onda d’urto. Su quel palco ho visto Sleep, Sunn O))), Scorn e Godflesh: The Bug è andato oltre.

Midwife & Vyva Melinkolya

Il secondo giorno lo inauguro con un po’ di dolcezza. Midwife e Vyva sono due amiche del cuore che suonano folk pop shoegaze da cameretta. Classiche studenti da scuola d’arte che passano il tempo a guardare film di Bergman, fotografie in bianco e nero, musica di ogni tipo e nel tempo libero registrano musica e cortometraggi. Decidete voi se sono insopportabili o da amare. Io propendo per la seconda ipotesi.

Messa

Ai Messa concedono il main stage per suonare tutto il nuovo disco The Spin, che ho ascoltato con curiosità i giorni precedenti al festival. Parlo brevemente del disco: secondo me è sia un passo avanti che un passo indietro: ha dalla sua alcune ottime canzoni, forse le migliori mai scritte dalla band, e di contro ha alcune scelte stilistiche discutibili (assoli bruttini, momenti troppo chill, ritmica messa in disparte). E questi pregi e difetti salgono sul palco con loro impedendo allo show di decollare veramente. Aggiungiamo una presenza non particolarmente grintosa e direi che, rispetto alle precedenti edizioni, i Messa non riescono a brillare come dovrebbero. Meritavano una scaletta “normale” e ponderata con il meglio di tutti i dischi.

Dis Fig

Torno a vedere Dis Fig perchè ero curioso di vederla su di un palco più piccolo. Avevo abbastanza ragione per un po’ di buoni motivi: la ragazza qui diventa una furia incontenibile e dimostra una versatilità fuori dal comune passando da elettronica, trip hop, drone, noise e folk con disinvoltura. Ma il motivo migliore è che nel mentre viene annunciato un secret show dei Big|Brave nella stanza a fianco.

Big|Brave

E qui arrivo all’apice del festival. Lo skate park è esattamente uno skate park a cui viene montato un palco e la gente si sistema tutto intorno alle rampe, un po’ in sbilenco. Il pregio è che si vede la band senza orpelli: luci accese a giorno e amplificatori sulla faccia. Il difetto è che i posti sono limitatissimi. Mi piazzo davanti alla cantante e chitarrista Robin Wattie, per esperienza so che stare davanti al bassista vuol dire morire. La scaletta è incentrata sul repertorio vecchio pescando da Nature Morte, Vital e Gaze Among Them. Robin piange per tutto il concerto, emozionata dalla situazione. Il concerto è pura elevazione spirituale difficilmente spiegabile.

Cave In

Ancora frastornato dai Big Brave corro a vedere i Cave In che fanno tutto Jupiter, uno dei dischi del cuore per la generazione post-hardcore. Devo dire che più che dire “oh che bello” non riesco a fare. Il mio cuore era ancora allo skate park. Ma “oh che bello” dopo i Big|Brave vuol dire tanto.

Gnod & White Hills

Avevo visto Gnod e White Hills al Roadburn tanti anni fa, quando era ancora un festival “stoner” e quando entrambe erano delle vere band e non un rimasuglio incollaticcio. C’è da dire che anche con lo scotch i vecchietti psichedelizzano di brutto e usano tutte le loro carte per ammaliare un pubblico che probabilmente non ha mai ascoltato queste cose.

Thou

Finisco la giornata al mainstage dove i Thou presentano tutto l’ultimo Umbilical, uno dei dischi più belli del 2024 in ambito heavy. Accompagnata da ospiti non precisati, la band di Baton Rouge fa quello che le riesce meglio: riff doom, urla devastanti e un piglio hardcore. In una parola: sludge. E loro sono gli assoluti maestri del genere, poco da dire: hanno attitudine, mentalità e i riff. Non credo serva altro.

Dødheimsgard

Il terzo giorno inizia con una band non troppo nelle mie corde, ma che mi ha conquistato con l’ultimo lavoro Black Medium Current, che qui propone per intero. Una proposta molto strana in cui si mescolano black metal, dark sound, teatro, esoterismo, progressive e psichedelia in un modo molto, molto, originale. Musicisti di alto livello vengono coinvolti a interpretare sul palco le follie allucinate del frontman per uno spettacolo che difficilmente rivedrei ma che sono contento di aver vissuto.

Vyva Melinkolya

Tanti anni fa ero in attesa di vedere la giovane Chelsea Wolfe sullo stesso stage in cui vedo Vyva Melinkolya, che forse non potrebbe essere sua figlia ma quasi. La giovanissima cantautrice dark propone la stessa formula dei primi dischi della regina: folk, shoegaze e pop da cameretta triste. Incantevole.

Steve Von Till

All’ex Neurosis vogliamo tutti bene e più o meno sappiamo che tutti i suoi progetti hanno un’aura sacra come se venissero dall’alto dei cieli. Adoro il suo Harvestman e le sue divagazioni sperimentali, ma devo dire che nella versione cantautore mi convince molto di meno. In questo set presenta tutto il disco in uscita e devo dire che non mi convince granché, sfiorando in molti momenti il cringe (pianoforte a coda suonato in modo elementare mentre cantava con una voce da Louis Armstrong dei poveri). Il carisma non si discute, ma forse avrebbe meritato un palco più piccolo e meno pretenzioso.

Tristwch y Fenywod

Uno dei dischi del cuore del 2024 è stato quello delle Tristwch y Fenywod, trio dark gallese formato da due donne (basso e batteria) e una trans (arpe e voce). Hanno l’aspetto di creature magiche dei boschi e suonano un dark folk tra Virgin Prunes e Dead Can Dance, ma in gallese. È roba strana ma anche melodicissima grazie ad una formula ridotta all’osso che in breve tempo si fa ricordare e amare. Dal vivo sono scarse il giusto per sembrare assolutamente vere e adorabili.

Sumac & Moor Mother 

La creatura di Aaron Turner non è nuova a collaborazioni e in questo frangente si estrae Moor Mother, donna che trasforma in oro quasi tutto ciò che tocca. Il disco deve ancora uscire (sebbene presente al banchetto, velocemente saccheggiato) ma le premesse sono buone. Insieme suonano un drone metal con spoken word, idea che poteva venire ai Sunn O))) ma che è venuta ai Sumac.

One Leg One Eye

Ian Lynch è uno dei Lankum, band che suonò lo scorso anno nel mainstage e che quest’anno si presenta un po’ a pezzi. One Leg One Eye è il suo progetto folk drone che mi godo in una saletta pienissima di gente. Musica in qualche modo cinematica che forse trova il meglio di sé su disco.

ØXN

Dispiace che distratti dall’hype dei Lankum tantissimi si siano persi il side project di Radie Peat uscito poche settimane dopo. Gli ØXN per certi versi ne sono un miglioramento in ottica pop-kraut. Meno folk e oscurità e più armonie vocali e viaggi cosmici con i synth. La band è eccellente anche dal vivo ed è splendida da ammirare (soprattutto una batterista originalissima e precisissima). Anche in questo caso sarebbe stato meglio un palco più piccolo, ma anche così non mi lamento.

Kuunatic

Vidi le Kuunatic al Raindogs di Savona nel tour del precedente Gate Of Klüna e mi innamorai del loro mix di folk giapponese, musica cosmica e heavy rock. Decido quindi di sacrificare altre band importanti per godermele nuovamente fresche di pubblicazione del secondo album Wheels Of Omon e non me ne pento. Le tre ragazze sono diventate molto più heavy ed ipnotiche, trasformandosi in una versione giapponese degli Om (sarà per questo il titolo?). Riffoni di basso suonati con il piglio di Cisneros, melodie sbilenche orientali e un piacevole senso di stordimento. Una sorpresa per molti, per me una conferma.

Altin Gün

Faccio outing: ho tutti i dischi degli Altin Gün. La band turco olandese suona un efficace revival (plagio) del rock psichedelico turco anni Settanta, un po’ come fanno i nostri Calibro 35 con la musica italiana. Suonano benissimo e hanno dalla loro alcune canzoni irresistibili. Ma ci sono due problemi: non c’è più la cantante Merve Dasdemir e senza di lei sono molto meno interessanti. Il secondo problema è che siamo al Roadburn! Cos’è tutta questa solarità? Scherzi a parte, l’impressione è che gli Altin Gün potevano venire bene qualche anno fa mentre ora suonano giusto come un diversivo tra una band e l’altra. Peccato.

Pg99

Un po’ a caso finisco a vedere i Pg99 incuriosito dalla presenza di tre bassi, quattro chitarre e due voci. I nostri fanno parte del pacchetto screamo con gli Envy, un genere che mi piace ma che non mi fa impazzire. Visti per una quindicina di minuti penso di aver visto tutto quello che c’era da vedere. Belli potenti ed enfatici come da copione.

Chat Pile

Nel giro di poco tempo i Chat Pile sono diventati la band Roadburn per eccellenza. Merito della loro simpatia stralunata e di una formula che riassume un po’ tutto il sound che va per la maggiore negli ultimi tempi tra i giovani e i meno giovani (diciamo quelli fino ai 45 anni). Noise rock? Grunge? Numetal? Sludge? Sì. All’inizio di ogni canzone esulto pensando “ah questa è quella bella”, per poi rendermi conto che non hanno mai fatto brani brutti. Le canzoni nuove funzionano meglio che su disco, quelle vecchie funzionano anche su una radio scassata. Andateli a vedere adesso: non temporeggiate.

Inseck Ark

Il quarto e ultimo giorno inizia con un po’ di perplessità. Sono stanco e mi sembra quasi che gli unici gruppi interessanti siano giusto un paio. Le orecchie non ce la fanno più, la schiena urla pietà, lo stomaco ormai riceve solo patate da giorni. Insect Ark non aiuta. Su disco è eccellente, dal vivo lei dovrebbe cantare il meno possibile. Il batterista dei Khanate però è sempre un piacere. Rispetto all’Amplifest, quando la vidi in apertura, mi ha lasciato molto freddo.

Endon

Mi spiace che a sti giapponesi sia capitata qualsiasi sfiga ma esternarlo sfracellandoci i timpani mi sembra un po’ troppo. Dopo una decina di minuti di harsh noise urlato alzo bandiera bianca. Perdonate.

Midwife

Midwife è esattamente quello di cui ho bisogno e mi dona quella morbidezza che cercavo. Purtroppo mi sono perso il set con i Thou ma recupero con questo concerto in cui suona brani della sua prima produzione. Canzoni sussurrate e arpeggi distorti: non chiedo di meglio.

Sumac

Avendo fatto riposare le orecchie con le dolci melodie di Midwife sono pronto per i fuochi finali. Parto con i Sumac che propongono un set incentrato sull’ultimo disco Healer, per me il loro capolavoro. Dal vivo assume un aspetto pazzesco, diventando un mostro multiforme. Aaron Turner è il classico amico che ti porta a fare una passeggiata e ti dice “passiamo di qui” e c’è uno strapiombo, “vieni vieni” ed è pieno di rovi, “ancora un minuto” e passano 3 ore. Ma alla fine del viaggio sei una persona nuova che ha vissuto un’esperienza inedita. Post metal drone jazz funeral doom? Più o meno.

Big|Brave

Corro a vedere i Big|Brave e mi godo pure il soundcheck dove fanno un paio di brani vecchi. In questo set però si concentrano sull’ultimo A Chaos Of Flowers, per ora l’episodio più soft della loro discografia, un ipotetico incrocio tra Low e Neurosis. Performance come al solito maiuscola e di grande intensità. Va da sé che allo skate park è stato meglio, ma qui poco sotto.

Uniform
Thou

Alla fine del concerto dei Big|Brave annunciano due secret show allo skate park: prima Uniform e poi Thou. Pur essendoci già parecchia coda, provo ad infilarmi e ci riesco! Felicità a mille e capisco che questo sarà il modo in cui finirò il festival: con le orecchie sanguinanti. Uniform straziano l’ascoltatore con il loro personalissimo noise sludge new yorkese mentre i Thou fanno un lungo set di brani rari e dimenticati. L’estasi definitiva è stata raggiunta. Fuori diluvia. C’è ancora tempo per una porzione di patate per non svenire e salutare il festival migliore del mondo.