Tam Bor’s not dead
Intense & Ciao è finalmente il disco d’esordio di Tam Bor, nome che nel Canton Ticino dove vivo, dove ho prodotto ed ascoltato, da anni è sulla bocca di tutti. Giacomo Viti Bastianelli non è mai stato fermo, in primis come batterista dei Peter Kernel, da anni sulla breccia, ma non secondariamente con la ricerca di un ritmo, di un groove che finalmente riuscisse a chiudere una parabola aperta anni addietro, sedendosi ad una batteria.
L’impressione, ascoltando Intense & Ciao, è che Tam Bor abbia percorso un sentiero che finalmente sia arrivato a compimento risultando contemporaneo nel 2025. Perché proprio ora?
Giacomo Viti Bastianelli: Sì, credo che Intense & Ciao rappresenti davvero, per la prima volta, l’essenza compiuta di Tam Bor. Rispetto al primo ep o alle prime esibizioni dal vivo, questo lavoro riflette in pieno l’idea musicale che sto cercando di portare avanti. È il risultato di un percorso concreto: la famosa gavetta, le sperimentazioni, gli errori, e anche le pause. Ma tra la fine del 2024 e l’inizio del 2025 è successo qualcosa di diverso: ho deciso di dedicare il 100% delle mie energie a questo progetto, senza riserve.
Credo che anche la componente personale abbia fatto la sua parte. L’età, certo, ma soprattutto una nuova consapevolezza. Scrivo musica con più maturità, e ora sento il bisogno di scavare dentro, di affrontare temi più interiori e autentici. Per questo Tam Bor oggi suona contemporaneo: perché finalmente è sincero, non ha fretta di inseguire qualcosa e forse proprio per questo arriva nel momento giusto.
Per molti ascoltatori, soprattutto in Canton Ticino, sei stato e sei il batterista di Peter Kernel, ma come convivono in te queste due identità?
Non sento di avere due identità distinte. In realtà, c’è una continuità molto forte tra ciò che faccio come batterista dei Peter Kernel e quello che esprimo come Tam Bor. Se mi hai visto suonare con Peter Kernel, probabilmente puoi ritrovare in Tam Bor la stessa intensità fisica, lo stesso approccio viscerale alla musica, la stessa urgenza espressiva. Anche se non sono io a comporre direttamente i brani dei Peter Kernel, quando li suono riesco comunque a farli miei: li interiorizzo, li abito, li porto sul palco con un’energia che mi appartiene. Questa esperienza ha inevitabilmente modellato anche il modo in cui scrivo e interpreto la musica di Tam Bor. Non si tratta di staccarsi da un’etichetta, anzi: sono grato e fiero che molte persone mi identifichino con quella parte del mio percorso. È una radice che non voglio – e non posso – ignorare. Tam Bor esiste anche grazie a quel bagaglio, ma ora cammina con gambe proprie. Le due cose convivono in modo naturale, si alimentano a vicenda. E forse è proprio questo che rende il progetto autentico: non c’è finzione, solo trasformazione.
Sei svizzero e messicano, che tipo di storia hai? Quando è entrata in questo percorso la musica? La batteria? E le tue canzoni?
Sono nato in Italia, ma sono cresciuto in Svizzera italiana, in una famiglia culturalmente molto ricca: mio padre è italiano, mia madre messicana. A casa si parlava sia italiano che spagnolo, e questo miscuglio di lingue, suoni e sensibilità ha avuto un impatto forte su come vivo la musica oggi. È come se fossi cresciuto con una colonna sonora multiculturale che mi ha accompagnato fin da bambino.
Il mio primo contatto reale con la musica lo devo ai miei fratelli maggiori. Essendo l’ultimo di tre, ho assorbito tutto: le loro collezioni di dischi, le riviste, le ore passate davanti a MTV a guardare videoclip. È stato un imprinting naturale. Ho iniziato a suonare la batteria quasi per “necessità familiare”: mio fratello maggiore aveva già preso la chitarra, quindi io ho preso quello che restava, e col tempo è diventata la mia vera voce.
La composizione, invece, è arrivata un po’ più tardi. Mi ricordo ancora la prima volta che ho creato una canzone con un software che si chiamava Music Maker, poi Garage Band e più tardi ho imparato a usare Ableton, grazie a migliaia di tutorial online. È stato un percorso molto autodidatta, molto DIY, ma anche molto libero: potevo sperimentare senza limiti, costruire un linguaggio tutto mio.
Siccome sono cresciuto con MTV e l’esplosione dell’hip hop e del pop elettronico dei primi 2000, sono stato influenzato da produttori come Pharrell Williams e Timbaland, che mi hanno insegnato il valore della personalità nel suono. Poi, con SoundCloud, ho scoperto artisti più indipendenti e collettivi come Soulection che mi hanno aperto a una visione ancora più globale e contemporanea della musica.
Nel frattempo, suonavo punk e noise rock con i Peter Kernel, una realtà completamente diversa, dove contano l’energia, il sudore, il contatto diretto con il pubblico. Queste due anime, quella del produttore elettronico e quella del musicista da palco, sono sempre state in me. Tam Bor è il punto in cui si incontrano: un ibrido tra programmazione e istinto, tra computer e corpo, tra precisione e caos.
Il disco sembra una continua integrazione fra organico e digitale, risultando rappresentativo del presente. Che cosa racconti con la tua musica?
Credo che la mia musica racconti proprio questo: l’integrazione costante tra due mondi che spesso sembrano opposti, il corpo e il computer, il gesto fisico e la programmazione digitale. È un equilibrio che cerco da sempre, forse perché sono cresciuto a metà tra la batteria suonata in una stanza sudata e le ore passate davanti a uno schermo a scolpire suoni su Ableton. La mia identità musicale nasce lì: da una parte c’è l’istinto, l’errore umano, la vibrazione reale del suono; dall’altra c’è la possibilità di creare spazi e texture che esistono solo nel mondo digitale. Quello che mi interessa è come questi due elementi possano dialogare, non scontrarsi. Non è nostalgia dell’analogico, né esaltazione del virtuale, più un tentativo di raccontare il presente. Forse questo rispecchia anche il tempo in cui viviamo, dove le identità non sono più fisse, ma ibride, stratificate, in continua trasformazione. E dove l’identità si costruisce anche attraverso la tecnologia.
La musica non è solo qualcosa che si ascolta, è qualcosa che si sente, anche sulla pelle. Questo vale anche per me: quello che cerco di fare è costruire un linguaggio che parli tanto all’intestino quanto alla testa. Che faccia ballare, ma che allo stesso tempo faccia anche pensare o ricordare qualcosa di intimo.
Ad inizio dello scorso anno hai pubblicato un video Instagram dove in un viaggio fra Losanna e Zurigo in treno ti metti a creare lo scheletro di un brano. Come funzioni produttivamente? Che routine hai?
Non ho una vera e propria routine fissa quando produco. Non mi siedo con un’idea precisa in testa, né con l’obiettivo di scrivere “quel tipo di brano”. Mi lascio guidare molto dall’intuizione del momento e dall’ambiente in cui mi trovo. Quel video in treno tra Losanna e Zurigo è un buon esempio: a volte bastano delle cuffie, un laptop e qualche ora sospeso in un non-luogo per far nascere qualcosa.
Detto questo, ci sono alcuni passaggi che si ripetono quasi naturalmente. Di solito parto dal ritmo, è la componente a cui do più attenzione all’inizio. Imposto i BPM, butto giù un pattern MIDI con suoni di batterie elettroniche, e poi inizio a suonarci sopra con la batteria acustica. Quel passaggio è importante per me, perché inserisce subito un elemento umano, irregolare, fisico. È come se il pezzo prendesse vita solo in quel momento.
Dopo la parte ritmica arrivano il basso, le melodie, e solo alla fine penso alla voce. Ma anche qui non è una regola rigida, tutto può cambiare strada facendo.
L’unica vera “routine” durante la scrittura dell’album è stata quella di non affezionarmi troppo alle prime versioni delle canzoni. Cercavo sempre di ascoltarle con orecchie fresche, evitando di rimanere intrappolato nei loop. Questo spesso significava rimettere tutto in discussione, anche dopo giorni di lavoro. Ci sono pezzi che hanno attraversato dieci versioni prima di arrivare a quella definitiva. Ma è un processo che mi piace: ri-questionare, smontare, rifare. È lì che capisci cosa funziona davvero. È una lotta costante tra istinto e lucidità.
Intense & Ciao sembra vivere di diverse ispirazioni ma in più di un tratto ho percepito un trasporto emotivo e punk. Quali sono state le tue ispirazioni? Quando hai iniziato a concepirlo?
Le influenze dietro Intense & Ciao sono tante e molto diverse tra loro, ma fin dall’inizio volevo che l’album avesse un’identità sonora forte, riconoscibile dalla prima all’ultima traccia. Non mi interessava fare una raccolta eclettica di stili, ma trovare un linguaggio che unisse tutte le parti di me, pur partendo da input molto vari.
Nel periodo in cui ho iniziato a scriverlo, ascoltavo molto la nuova scena spagnola, artisti come Ralphie Choo, Judeline, C. Tangana che mi hanno colpito per la libertà con cui uniscono melodie malinconiche e intime a beat che ti fanno muovere. Questo contrasto mi affascina da sempre: la possibilità di essere emotivo e fisico allo stesso tempo, di far convivere fragilità e ritmo. È un approccio che sento molto vicino.
Il lato più “punk”, invece, è venuto fuori quasi inconsciamente, strada facendo. Mi sono accorto che mi piaceva sporcare i suoni, usare distorsioni, saturazioni, tenere tutto più grezzo, più d’impatto. È un’estetica che ho fatto mia anche grazie ad artisti come mk.gee, che riesce a creare texture sonore forti e personali usando la chitarra in modo non convenzionale. Io cerco di fare lo stesso con i miei strumenti, a partire dalla batteria.
Un altro aspetto importante è che il mixing l’ho curato tutto io, e per me è parte integrante del processo creativo. Non volevo un suono “pulito” da grande produzione, ma qualcosa che suonasse coerente, diretto, con un’identità precisa, anche se questo significava rinunciare alla perfezione. In un certo senso, è proprio questo il mio modo di essere punk: fare tutto da solo, rischiare, sporcarmi le mani, e cercare un impatto reale più che una levigatura estetica.
Batteria e canto insieme è un quadro enorme, da Karen Carpenter a Grant Hart a Brian Chippendale. Ma il farlo in solitaria che cosa comporta in termini di composizione ed esibizioni dal vivo?
Batteria e voce sono due dimensioni molto diverse per me, quasi opposte. Quando suono la batteria, sia in studio che dal vivo, entro in una specie di trance, in uno stato mentale dove tutto diventa istinto e fisicità. È un gesto che conosco bene, che mi appartiene, quasi una seconda natura. Il canto invece è qualcosa di molto più fragile e vulnerabile. Quando canto, mi espongo davvero: non solo fisicamente, ma anche emotivamente, perché attraverso la voce passano i testi, i messaggi, e quindi una parte più intima di me. Per molto tempo i miei live erano quasi esclusivamente strumentali. La voce era un elemento che lasciavo da parte, forse per timidezza, forse perché mi sembrava di non aver ancora trovato il modo giusto per farla convivere con la batteria. Ma poi mi sono reso conto che, per dare un’identità forte al progetto e all’album, servivano anche parole, un timbro vocale, qualcosa che potesse “firmare” i brani in modo più diretto.
Combinare le due cose non è semplice. Il batterista, per definizione, è statico: sei seduto, ancorato al tuo strumento, e questo limita un po’ la possibilità di entrare in relazione con il pubblico. Eppure la voce è proprio il contrario: ti connette, ti espone, crea un ponte. È lì che cerco di spingermi, anche se a volte tengo ancora gli occhi chiusi, come se stessi ancora dietro i tamburi.
Sto riflettendo molto su questo equilibrio, soprattutto per i live futuri. Una delle opzioni che sto considerando è coinvolgere un secondo batterista, in modo da potermi liberare fisicamente e concentrarmi di più sul canto e sulla relazione col pubblico. È un passaggio delicato, ma credo che possa aprire nuove possibilità espressive. Vedremo.
L’ultimo tuo live a cui ero, in apertura di Mortòri a Lugano, si è confermato insieme intimo e comunicativo, fattori confermati dal disco. In diverse occasioni, invece, ho visto delle immagini di te sotto palco, attorniato dal pubblico. Qual è la tua condizione ideale di esibizione?
Per me, la condizione ideale di esibizione è proprio quella in cui si crea un rituale condiviso, dove io, come batterista e performer, mi trovo al centro della platea. Suonare in quella configurazione, con il pubblico che mi circonda a 360°, è la versione che sento più autentica, la modalità che funziona di più per me.
È una scelta consapevole: dato che la figura del batterista tende a rimanere fissa in un punto, questa impostazione permette al pubblico di diventare parte attiva del concerto. Le persone si scambiano sguardi e sensazioni, abbattendo le barriere gerarchiche tra chi sta sul palco e chi osserva. Questo crea un’atmosfera intima e inclusiva. In definitiva, avere il pubblico attorno, come se fosse la mia cornice, non solo arricchisce la performance, ma rende ogni esibizione un’esperienza unica e profondamente comunicativa, in sintonia con quello che il disco vuole trasmettere.
Intense & Ciao avrà una sua filiazione fisica? Lo stamperai oppure rimarrà unicamente digitale?
Il progetto Intense & Ciao ha sicuramente un grande potenziale anche in versione fisica. Essendo designer grafico, il mio sogno è poter lavorare a una sua declinazione tangibile, con grafiche ed oggetti di merchandising che contribuiscano ad ampliare l’universo di Tam Bor. Mi piacerebbe che questi elementi siano curati con attenzione, in modo da valorizzare al meglio l’identità del progetto.
Hai in programma delle sortite anche all’estero come live? Speranza di vederti in Italia?
Per ora non ho date programmate all’estero, ma tengo sicuramente d’occhio l’Italia. Gran parte dell’album è cantato in italiano e ho seguito molto la scena musicale italiana contemporanea, quindi mi piacerebbe molto capire come vengono accolte le canzoni dal vivo lì!