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LAUREL HALO, Atlas

Negli ultimi anni l’estetica del web è stata pervasa da un fenomeno trasversale che va sotto il nome di “liminal spaces”, immagini di luoghi che ci colpiscono con una familiarità quasi aliena alimentano le nostre paure più recondite. La loro osservazione va a braccetto con un senso di disagio controllato, a metà fra reale affinità e senso di scomodità per la totale mancanza di vita che trasuda dalle pareti di questi posti di confine. Sono assimilabili alla grande famiglia dei non-luoghi, spazi fisici in cui l’umanità pare quasi risucchiata fuori dalle sue stesse creazioni, una finestra sul giorno del giudizio più silenzioso della Storia. A riempire questo silenzio assordante ci pensa la nuova creatura di Laurel Halo, che si insinua tra i meandri del liminale col suo nuovo Atlas. Un album che traccia una mappa del subconscio con la penna dell’ambient jazz, sapientemente guidata dalle mani dell’artista californiana. Illusioni distanti e spettri di ricordi duettano evanescenti sui collage sonori del disco, permeato da manipolazioni elettroniche e lande armoniche estremamente dense che dilettano l’ascolto in un infinito gioco di rimandi tra reale ed effimero. Laurel Halo si prende tutto il tempo necessario per popolare queste terre desolate, dilatando a dismisura il tempo e costruendo davanti ai nostri occhi un’esperienza sonora concreta e sensoriale, che brilla nell’aria tersa del non-luogo che ci attornia. Già dall’iniziale “Abandon” l’ariosa classica moderna (impreziosita dalla collaborazione di Lucy Railton al violoncello e di James Underwood al violino) si infiltra nelle trame ambient della Halo, che puntella la seguente “Naked To The Light” con un pianoforte sospeso tra le corde estese all’infinito dai suoi collaboratori. Le vibrazioni di “Sick Eros” fanno da continuo ponte tra tensione e rilascio, e scena dopo scena l’atmosfera si fa sempre più rarefatta, facendo virare il disco verso un lato B che espande ulteriormente l’ignoto. La tensione rimane infatti sempre costante, un perenne stato di sospensione che fa letteralmente fiorire composizioni come l’omonima “Atlas” e la conclusiva “Earthbound”, che con un pizzico di drone rinfranca ulteriormente tutti gli stilemi ascoltati nei 40 minuti precedenti.

Atlas è un disco che riesce a costruire un’atmosfera quasi palpabile, diventando collante tra le crepe del reale. Una fusione che fa coesistere tutte le migliori caratteristiche delle produzioni dell’artista statunitense, mai come stavolta capace d’inglobare in un prodotto finito tutta la vastità incommensurabile del suo sound. Un lavoro che fa pienamente centro, candidandosi come una delle uscite più interessanti di questo 2023.