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LA MORTE VIENE DALLO SPAZIO, Trivial Visions

Trivial Visions potrebbe benissimo fare da colonna sonora a una pellicola di Panos Cosmatos, “Mandy” possibilmente, ma in realtà la ragione sociale dei suoi autori, La Morte Viene Dallo Spazio, deriva dall’omonimo b-movie del 1958, di Paolo Heusch, primo vero e proprio film sci-fi (catastrofista) del cinema italiano. Lì sulla Terra cadevano gli asteroidi. Qui la minaccia è invece rappresentata dai brani scagliati con forza dal quintetto. Nato per caso e adesso pronto a lanciarsi in missione con maggior consapevolezza, lo squadrone è composto da Stefano “Bazu” Basurto (chitarre, sitar e voci) e Melissa Crema (theremin, organo, synth, voci e testi), entrambi attivi negli psichedelici Giöbia (l’ultimo e ottimo Plasmatic Idol risale appena allo scorso anno), ai quali si affiancano Angelo Avogadri (flauto, chitarre), Camilla Chessa (basso) e Federico Rivoli (batteria).

Questo è il secondo album della formazione lombarda, in uscita per la finlandese Svart Records, a seguire l’esordio Sky Over Giza del 2018 che già tanto ci era piaciuto con il suo space rock tra antico misticismo e mood extraterrestre. Come avvenuto negli ultimi concerti dal vivo, in Trivial Visions le cose si fanno più travolgenti (a metà strada tra heavy metal post-Seventies e dark ambient), senz’altro molto più aggressive e cupe che in casa Giöbia, insomma. La mente si scioglie con corrosivi colori lovecraftiani, quelli emanati da pezzi sostanzialmente free form, sebbene più strutturati e compatti, anche nel minutaggio, rispetto al recente passato. Durante l’ascolto si pensa ovviamente ai Black Sabbath dei primi cinque dischi, tanto quanto ai Goblin assoldati da Argento, ma – in virtù dell’utilizzo dei legni – persino ai Jethro Tull più fiabeschi (in chiave macabra).

“Lost Horizon” parte subito mettendo in chiaro, anzi in scuro, che si inizia, sì, ma di orizzonte non ce ne è più manco uno, in un crescendo di inquietudine dal retrogusto horrorifico, con sferzate di riff prog rock, apparato ritmico death e linee digitali alla Carpenter. La title track martella con piglio allucinato e allucinatorio prima di lasciare campo a uno sciamanico ritornello, la cavalcata “Cursed Invader” ricorda i mantra tribali dei Dead Skeletons, “Oracolo Della Morte” asseconda derive mediorientali e “Ashes” ci spedisce dritti in un futuro doom da incubo. “Spectrometer” e “Absolute Abyss”, altri episodi interamente strumentali, portano a compimento un viaggio fatto di polvere e stelle, dilatazioni sotto effetti stupefacenti e accelerate post-apocalittiche da “Fury Road”. “Altered States” cala il sipario mixando i vari ingredienti nella tossica pozione magica. I rituali elettrici de La Morte Viene Dallo Spazio ci aprono la porta della percezione verso una dimensione persa nelle pieghe di un tempo non si capisce se perduto oppure ancora da venire. Certo è che da questa confluenza di riferimenti di genere da manuale non si vorrebbe mai tornare indietro. Del tutto adepti al culto.