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JOHN FRUM, A Stirring In The Noos

Il nome della band è preso a prestito dal famigerato culto del cargo nato dall’incontro tra culture del Pacifico da sempre separate dal resto del mondo e le navi occidentali: John Frum sarebbe stato un militare statunitense preso dagli indigeni a simbolo di queste nuove divinità venute a salvare dall’invasione giapponese gli abitanti di un’isola del Vanatu. Esaurito questo breve ma necessario cappello introduttivo, vale la pena sottolineare come questa formazione comprenda musicisti già visti all’opera con – tra gli altri – John Zorn, Dillinger Escape Plan e Starkweather, il che serve anche a dare qualche indizio per individuarne le traiettoria: un death metal pesantemente influenzato da spinte decontestualizzanti, caratterizzato da un rigido approccio matematico e prodotto di una tecnica ai limiti del mostruoso. Purtroppo, questo è anche l’unico ma importante limite del disco in oggetto: una freddezza di fondo e una sorta di distacco dalle pulsioni terrene proprie di un sound che dovrebbe avere un che di carnale e marcio al suo interno. A Stirring In The Noos, invece, appare quanto di più chirurgico, distaccato e insensibile all’umanità e alla corruzione dei corpi, proprio per via dell’incredibile tecnica dei musicisti e del loro approccio scientifico, fattori che lo avvicinano alle variabili più cerebrali del suo genere, tanto che risulta più dedito all’elucubrare che al colpire con veemenza l’ascoltatore. Nulla di male, sempre che un’impostazione di questo tipo faccia per voi e riusciate ad accettare qualcosa che attinge dal death, lo tuffa nell’approccio post dei nomi citati in apertura (in particolare gli Starkweather), ma sembra lasciare completamente fuori dalla porta il suffisso “core”, laddove questo indica la componente più genuinamente passionale ed emozionante del discorso. Un lavoro di sicuro interessante, ma forse privo di quegli errori e quelle sbavature che lo avrebbero avvicinato al nostro sentire e ne avrebbero fatto un autentico predatore. A ciascuno il suo.