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JLIN, Akoma

Da piccolo collezionavo minerali: fluorite, ametiste, quarzi, azzurrini, smeraldi. Di qualsiasi forma e colore, l’unica prerogativa era che luccicassero di fronte ai miei giovani occhi. Crescendo questo hobby è scemato, rimanendo rinchiuso in qualche cassetto polveroso a casa dei miei. Ogni opera di Jlin potrebbe tranquillamente trovare posto nel mio vecchio raccoglitore, pietra sgargiante con infiniti intagli luminosi. Quarto smeraldo in quasi dieci anni di carriera, quarto centro pieno. Una costante ascesa per l’artista nativa dell’Indiana, un’ulteriore prova di forza nell’affollato parterre dell’IDM. Sempre in controllo, Akoma ha il dono di fluire in maniera estremamente naturale, senza nessuna sbavatura di sorta.  Per ogni pezzo si può trovare qualcosa da dire, ogni capitolo è sezionabile in ogni sua minima parte. L’utilizzo dinamico – quasi ad arrivare al virtuosismo circense – di una folta strumentazione durante questi quasi 44 minuti di puro ritmo è il fiore all’occhiello di un insieme che non finisce mai di alzare l’asticella, riuscendo a essere allo stesso tempo sia tribale (vedi: “Eye AM”), sia futuristico. Il footwork carismatico che colora il disco si permette di invadere anche territori modern classical, ormai vero marchio di fabbrica di Jerrilynn Patton. Danza classica in un’acciaieria a pieno regime. L’immersione in un multistrato di campane, campanelle e archi di “Summon” è una buona cartina tornasole di questo approccio, al pari della seguente “Iris”, che viaggia lungo binari simili senza mai perdere la sua vena deeptronic. L’identità sonora di Jlin è ormai marmorea, compresa di ogni particolarissima venatura che dona alla pietra scura della statunitense una forte peculiarità e unicità. Puro godimento (provare le cascate di bassi di “Open Canvas” per credere) che riesce a trovare il corretto equilibrio fra durezza e melodia. Un album che per assurdo fa passare in secondo piano due featuring platino, con l’ectoplasma di Björk che fa una capatina quasi impercettibile sull’ispirato footwork dell’iniziale “Borealis” e la rielaborazione a quattro mani con Philip Glass di “The Precision Of Infinity”. La grandezza di questo lp sta nella pletora di dettagli e incisioni sulla sua fredda pietra, sfarzoso luccichio per uno dei dischi elettronici (e non) più interessanti ascoltati finora quest’anno.