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BLACK OX ORKESTAR, Everything Returns

In questo disco bisogna nuotarci, andare a fondo: Everything Returns è il viaggio perenne che compiono i profughi quando attraversano la densità del mare, delle guerre, della diaspora e del sangue, ma anche dei legami e della memoria. Una fuga in cerca di una pace che potrebbe anche non arrivare mai, come ben descritto dal testo e dal video di “Mizrakh Mi Ma’arav”, primo singolo dopo quindici anni di silenzio, uscito su flexidisc per gli abbonati della rivista radicale Jewish Currents.

Un disco di luci e di ombre, questo, dove spesso, in piena continuità con la tradizione klezmer, le luci sono quelle degli intermezzi strumentali (tutti tradizionali) e arrivano a illuminare il buio lasciato dalle complesse composizioni originali. Gli argomenti sono l’ereditarietà del trauma (“Epigenetik”), i dilemmi morali di chi vorrebbe essere un giusto nel mondo (“Lamed-Vovnik”), la morte per assideramento di un antenato (“Perpetual Peace”) al suo arrivo a Montreal, sua terra d’asilo.

Raccontare con questa potenza i traumi intergenerazionali lasciati dalla diaspora senza toccare i cliché di un certo tipo di musica klezmer, affrontare la modernità raccontando le storie di altri profughi, da altre terre, è una peculiarità dei Black Ox Orkestar e forse è un’eredità del percorso radicale delle band d’origine dei componenti di questo gruppo, sempre di matrice Constellation: si parla di Thee Silver Mt. Zion, Godspeed you! Black Emperor e Sackville.

Il sound è granitico e impeccabile, frutto di una ricerca notevole sotto il profilo filologico, che traspare soprattutto nella traccia di apertura, “Tish Nigun”, tratta, insieme a “Skotschne”, dall’immenso archivio di Moishe Beregovski, il Lomax della tradizione musicale degli ebrei dell’Est Europa. Sono pezzi che arrivano dai primi anni del Novecento ma conservano una modernità notevole sotto il profilo della scrittura, che risalta in modo particolare grazie agli arrangiamenti.

La voce di Levine è il baritono che ti aspetti da una situazione del genere, a volte anche troppo intenso: un crooning alla Stuart Staples che ammanta alcune tracce di un velo demodé, qualcosa che sarebbe fuori luogo in altri dischi, ma non là dove ti porta Everything Returns: una stanza dove le persone ballano al suono di un vecchio giradischi che suona canzoni e storie drammatiche, nella loro contemporaneità.

Tutto ritorna, anche l’aria viziata del fascismo.