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THOMAS KÖNER, Aubrite

It’s important for me to live in a place like Dortmund, where there are no obvious attractions at all. Where it is completely boring, with absolutely no possible distractions. It is nothing, so my music then becomes fully connected to my retirement from external life.

Così diceva Thomas Köner a Kevin Martin nel 1993, ben prima che i lockdown diventassero una faccenda mondiale. Sì, è il famoso pezzo sull’isolazionismo scritto dal futuro The Bug, in cui intervista anche Robert Hampson. Köner aveva appena chiuso la sua trilogia (Nunatak – Teimo – Permafrost), costruita sul suono di gong e piatti pesantemente effettati e trasfigurati, registrati in stanze diverse e pare anche sott’acqua, un po’ prima che “isolazionista” diventasse un termine giornalistico. Questa trilogia è stata ristampata da Type Records nel 2010. Aubrite è l’album che arriva dopo e questa volta tocca a Mille Plateaux il compito di farlo conoscere alle nuove generazioni. L’estetica spettrale e riduzionista è la stessa dei lavori precedenti, ma mi sembra difficile credere che Köner all’epoca non avesse aumentato il numero di sorgenti sonore, su cui comunque compì un lavoro di scarnificazione tale da renderle quasi irriconoscibili, occupandosi anche di stendere lungo tutto l’album basse frequenze che pulsassero come i nostri organi vitali, anche se il titolo a tema spaziale suggerisce altri scenari, ma si sa: spazio esteriore ed interiore possono confondersi ed essere ugualmente vasti e sconfortanti. La mia convinzione è che, una volta in possesso della discografia iniziale di Köner, sia difficile cercare altrove dark ambient, se non nel catalogo di qualche altro gigante indiscusso. Tanti imitatori, dai Novanta in poi, avrebbero fatto meglio a cercare di evolvere le idee di questo signore tedesco del 1965 senza sembrare pacchiani, tentativo difficile davvero, me ne rendo conto.

My job is to construct music which can trigger the imagination by not offering concrete realism or familiar patterns, affermava Köner sempre in quella vecchia intervista. In realtà su questo vorrei dargli torto: se facessimo un test a qualche centinaio di persone ignare dell’esistenza di questi dischi, sono sicuro che le loro associazioni di idee non sarebbero così diverse le une dalle altre, a meno che ciascuna di loro non cominciasse a tirare fuori ricordi personali, ipotizzo orribili e sepolti da qualche parte inattiva del cervello.

P.S.: Mille Plateaux quest’anno ha ristampato anche Nuuk (1997) e due dischi dei Porter Ricks, dub techno a firma Köner – Andy Mellwig: uno dei due è Biokinetics, pietra angolare del genere.