PATRIK LANDOLT, (A)tonal Adventures
Un curioso formato, 15×21, per raccogliere trentasette anni di ricordi on the road. Patrik Landolt, tecnicamente un giornalista, ha ripercorso la storia della Intakt, etichetta zurighese dalla creatività appuntita che grazie a lui, che ne sarebbe stato l’anima sino al giorno della pensione, mosse i primi passi verso il 1984. Centoventuno capitoletti densi di incontri, scoperte, storie, suggestioni e anche sentimenti. Un’impresa discografica in continuo e precario equilibrio fra dura realtà quotidiana e slanci utopici, nel tentativo di fregare le implacabili leggi di mercato e far prevalere le ragioni della fantasia. Al fondo del volumetto, 388 copertine a colori illustrano come meglio non si potrebbe il catalogo della Intakt sino al 2022, data dell’edizione in tedesco, a cui ora si appaia la traduzione in lingua inglese, sempre a cura della Versus Verlag. Se consideriamo che in estate, con i titoli già annunciati, si raggiungerà la bella cifra di 443, è evidente l’importanza di un’avventura sonica che ha pochi eguali, non soltanto nell’ambito della musica improvvisata. Landolt descrive fatti e tratteggia persone senza farsi prendere la mano dalla nostalgia. Punta all’essenziale, con lucide riflessioni anche su aspetti meramente organizzativi e pratici, dalla difficoltà a reperire i distributori alla talvolta necessaria partnership con sponsor istituzionali (che, per fortuna loro, associazioni e artisti svizzeri di solito trovano), dalle complicazioni burocratiche quando si tratta di esportare i live di musicisti europei negli Stati Uniti (laggiù serve un permesso di lavoro, costoso e non facile da ottenere) alla problematica transizione dal vinile al cd (curiosamente, forse adesso accadrà il contrario).

I meriti della Intakt sono stati molteplici, perché alla metà degli anni Ottanta la musica improvvisata più radicale cominciava a vivere una fase di chiaro riflusso. Il mondo era in rapida mutazione e l’alternativismo collettivista dei Sessanta-Settanta stava scemando. Benemerite etichette europee come Black Saint, ICP, Incus e FMP avevano di fatto esaurito la loro spinta innovativa ed era venuto il tempo che altre ne raccogliessero il testimone. La Intakt ebbe l’accortezza di muoversi su differenti piani: promozione di artisti svizzeri affermati (Irène Schweizer, Pierre Favre) o appena agli inizi (Hans Koch), apertura incondizionata ai musicisti europei (Barry Guy, Evan Parker, Paul Lovens, Joëlle Leandre, Alexander von Schlippenbach) e ricerca di legami con l’altra sponda atlantica, dai battitori liberi Eugene Chadbourne, Elliott Sharp e David Moss ai rappresentanti dell’ala afroamericana (Cecil Taylor, Oliver Lake, Andrew Cyrille). Tre ambiti mai recintati, concepiti anzi come vasi comunicanti e che nel tempo hanno dato luogo a collaborazioni di pregevole qualità. Uno spirito improntato alla ricerca di anime sonore affini e alla scoperta di nuovi talenti che si è mantenuto vivo sino ai giorni nostri, come opere recenti di Alexander Hawkins, James Brandon Lewis, Punkt.Vrt.Plastik, Elias Stemeseder, Christian Lillinger, Borderlands Trio e Marie Krüttli hanno mostrato.
Nella postfazione al libro, Florian Keller, nuovo capitano del vascello, ribadisce a chiare lettere di voler agire, insieme al suo team, in una linea di continuità e insieme di rinnovamento, conscio che il cielo dell’industria musicale non è mai stato così movimentato e imperscrutabile. Lunga vita alla Intakt, comunque vada.