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SVALBARD, When I Die Will I Get Better?

Ascoltare gli Svalbard è come guardare attraverso un caleidoscopio: la loro musica, sbrigativamente etichettabile come rabbiosa e immediata, si scompone in una miriade di sfumature, frammenti di emozioni e drammi della vita di tutti i giorni.

Il loro nome parla di gelo, lontananza e paesaggi sconfinati, ma scordatevi lenti crescendo strumentali e placide atmosfere: nel post-hardcore trasversale di questi quattro ragazzi di Bristol ci sono il fuoco della ribellione e l’esigenza di travalicare barriere fisiche e psicologiche, abbracciando l’energia del punk, la solennità del post-metal e l’irruenza dello screamo.

When I Die Will I Get Better? è il terzo capitolo della loro carriera, degno successore dell’ottimo It’s Hard To Have Hope uscito due anni fa. Anche in questo caso, il titolo del disco sembra esprimere la volontà di arrendersi di fronte a una realtà opprimente e caratterizzata da un profondo senso di solitudine, condizione determinata da strutture sociali alienanti e da fantasmi interiori, non dalla geografia.

S’inizia con “Open Wounds”, che ci presenta un gruppo ormai consapevole dei propri mezzi, capace di fondere furia hardcore e melodia alla maniera dei più noti Envy, Oathbreaker e Deafheaven. La carica emotiva della vocalist Serena Cherry, nonché la sua abilità nel raccontare le proprie impressioni ed esperienze personali in merito a tematiche complesse (depressione, disturbi psichici, sessismo, violenza domestica e di genere), donano senza dubbio una marcia in più ad una formazione che non ha mai esitato nel trasporre in musica contenuti “scomodi” e nel denunciare l’indifferenza che li circonda. Ciò che infatti emerge – sia dagli riff di chitarra abrasivi di brani come “Throw Your Heart Away”, sia dagli intrecci più emotivi e atmosferici di “What Was She Wearing” – è la volontà di rendere il progetto Svalbard un veicolo per dare visibilità a zone d’ombra che la società trova conveniente ignorare.

Strike me down
With your beating wings
And remind me what it’s like
To feel things

I will not cower
I want for no shield
I am open like a wound
To replace the fragments of myself with you
I will bear the scars of the fool

Il gruppo ci ha fornito tre diverse interpretazioni per il titolo dell’album: la morte come unica via di scampo per il disagio psichico; la prassi (diffusa soprattutto nel mondo delle celebrità) di idealizzare i defunti a prescindere dal proprio tenore morale in vita; l’idea di una dimensione ultraterrena dove una ricompensa attende chi abbia sofferto. Al di là del significato più opportuno da attribuire al lavoro, credo che When I Die Will I Get Better? sia un’esortazione diretta a tutte le vittime di abusi e disagio psichico: per quanto la vita possa fare schifo, vale sempre la pena risollevarsi e contrattaccare.

Nota della redazione: recensione scritta prima che il fondatore di Holy Roar – che dovrebbe pubblicare questo disco il 25 settembre – ricevesse delle gravi accuse, tanto che Svalbard e Rolo Tomassi hanno annunciato di voler separare le loro strade dal loro editore. Noi non abbiamo materiale di prima mano sull’argomento e non possiamo fare altro che segnalare la cosa, invitarvi a fare le vostre ricerche e a formarvi un’opinione, come stiamo facendo noi.

Aggiornamento del 19 settembre 2020: la data di uscita del disco rimane il 25 settembre, ma ora la pubblicazione sarà opera di Church Road Records in Europa; Translation Loss (fonte della nostra notizia) si occuperà del Nord America, mentre Tokyo Jupiter Records stamperà l’album per il Giappone.