SANDY CHAMOUN / ANTHONY SAHYOUN / JAD ATOUI, Ghadr
Nel 2009 uscì per Einaudi “Quando Nina Simone ha smesso di cantare”, sconvolgente romanzo autobiografico di Darina Al-Joundi (Beirut, 1968) ambientato nella capitale libanese in un arco di tempo compreso tra la metà degli anni Settanta e la fine dei Novanta. Un tempo di guerra civile e di trasformazione per Darina: la musica, la droga che in città gira in abbondanza, le discoteche punk come Babylone e Back Street, il sesso vissuto come forma di ribellione al conformismo bigotto, ma anche la repressione sociale, l’internamento a Junieh in un convento/manicomio e infine la liberatoria fuga a Parigi. Ogni volta che ascolto la musica della nuova onda libanese formata da giovani artiste come Mayssa Jallad, Julia Sabra, Yara Asmar, Youmna Saba, Elyse Tablet, per citarne alcune, mi sembra che un filo rosso intrecci quel fenomenale racconto e tutte loro. Non fa eccezione Ghadr, il nuovo album di Sandy Chamoun, che aveva esordito in solo con Dreams Of Imagination nel 2021 sulla libanese Ruptured Records, etichetta nata nel 2008 e centrale nello sviluppo della nuova scena nazionale.
Sandy, nata nel 1987 a Beirut, con studi in ambiti performativi, è stata fondatrice nel 2016 della seminale band Great Departed ed è ora parte integrante dei Sanam, sestetto avant di riferimento per l’onda contemporanea libanese che ottenne non poca risonanza internazionale nel 2023 anche grazie al festival di Utrecht Le Guess Who?. Sandy Chamoun con i suoi lavori sembra mettere particolarmente a fuoco (ed è proprio il caso di dirlo) l’aspetto critico dell’ambiente acustico della sua città, della realtà circostante, trasformando il materiale spesso brutale e sempre sull’orlo del collasso in materia musicale tanto stratificata quanto impalpabile, non tralasciando mai quel senso di drammatica attualità che inevitabilmente permea la vita quotidiana di questi artisti.
Il labile scarto fra realtà e immaginazione, fra condizioni date e necessità creativa, è la forza, la benzina di Ghadr (“Tradimento”), che dalla nostra comfort-zone risulta certo non invidiabile, ma incredibilmente efficace. L’album è stato registrato a Beirut (durante gli attacchi dell’aviazione israeliana) a novembre 2024 nei Tunefork Studio di Fadi Tabbal, con la collaborazione di Jad Atoui (elettronica e synth) e Anthony Sahyoun (multistrumentista e chitarrista dei Sanam): “Noi esploriamo strutture ritmiche svincolate da una logica consueta tanto quanto Sandy reinventa il canone vocale arabo tradizionale”. Si comincia con la reinterpretazione di Sandy Chamoun di “Tahal Layl”, canzone popolare di origine beduina, che lo appoggia su un bordone digitale che ricorda un placido tampura indiano. La voce s’inerpica per scale altissime quando una minaccia improvvisa quanto palese irrompe, deflagra… un bombardamento l’azzittisce, ecco cosa ci aspetta! “Bihali” è ispirata a un testo del grande poeta arabo Abou Firas Al-Hamdani (Aleppo 932-968), articolandosi su una base che sarebbe cara a Kevin Richard Martin, inabissandosi poi in un vortice sonoro ipnotico. Segue “Al-Moulatham”, esplicitamente dedicata alla catastrofe in atto a Gaza, una nenia elettronica frastagliata, magma sonoro che segue il sentiero segnato da pionieri come Sussan Deyhim e Richard Horowitz. Dice Chamoun: “Non mi piace trascinare l’ascoltatore in una particolare direzione, piuttosto l’invito è trascendere storie e significati”: molto difficile quando arriva un pezzo come “Hayawanon Ghader” e l’ascolto si trasforma in incubo allucinatorio dall’evidente significato! Ancora Chamoun: “Su questo pianeta l’unica cosa che sta veramente accadendo adesso è il tradimento, titolo più appropriato ai nostri tempi non esiste”!
L’epilogo è riservato a una du’ā (preghiera) allucinata, “Al-Samaa wal Nabaat wal Ghaabaat wal Zaytoun wal Laymoun wal Lawz wal Tin”, quasi un mantra o una benedizione sull’immane malaventura di quel pezzo di mondo. Tragico indubbiamente, ma l’album è davvero bellissimo.