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OTTONE PESANTE, Apocalips

OTTONE PESANTE, Apocalips

Immaginario metal, dal nome della band ai titoli di alcuni brani (“Brassphemy”, “Melodic Death Mass”…), passando per gli artwork (uno su tutti quello di Brassphemy Set in Stone, curato da SoloMacello) e le foto promozionali, gli Ottone Pesante (i fiati di Paolo Ranieri e Francesco Bucci, la batteria di Beppe Mondini) giungono al secondo album, Apocalips, pubblicato nel “giorno dei morti”. Con queste premesse, che cosa possiamo aspettarci da loro? Gli Ottone Pesante giocano con il (doom?) metal, con il jazz, sfociando nella musica popolare, quella da banda del paese per intenderci, ma attenzione: non suonano come se parodiassero i generi sopracitati. Visto che parliamo di popolare, gli Ottone Pesante suonano come una versione imbastardita della Banda Ionica, progetto di Roy Paci e Fabio Barovero (Mau Mau) incentrato sull’esecuzione di brani delle processioni del Sud Italia. Enrico Tauraso (The Turin Horse, ex Dead Elephant), a proposito delle marce funebri, diceva: “[…] composizioni incredibili, le migliori ‘canzoni’ doom che siano mai state partorite in Italia”. Come dargli torto? Magari la banda del paese suonasse così. Da segnalare l’unico ospite del disco, Travis Ryan dei Cattle Decapitation, che irrompe con la sua ugola in “The Fifth Trumpet”. Un peccato non aver osato ancora di più. (Marco Gargiulo)

Secondo disco per Ottone Pesante, trio formato da Francesco Bucci al trombone, Paolo Ranieri alla tromba e Beppe Mondini alla batteria. “Preparate i rifugi antiatomici. Il trio che è riuscito a mettere d’accordo metallari, jazzisti e non solo, sta per tornare”, avverte la cartella stampa. La grande bravura dei musicisti non si discute e l’idea è molto interessante dal punto di vista timbrico, anche se alla lunga mostra la corda. Il problema sta, alle mie orecchie, nella scrittura, che pende completamente dal lato metal, e allora ci si chiede, legittimamente: cosa c’è di jazz, in questo lavoro? Nulla. Si tratta semplicemente di metal, zeppo di cambi, di unisoni, di sfuriate veloci e velocissime, suonato, invece che con le chitarre che fanno chugga chugga o ronzano, con ottoni e batteria. Sono certo che dal vivo funzionino bene – se non benissimo – e infatti ho notato che la band ha un’attività live davvero molto intensa. Il disco, però, mi lascia perplesso. Registrato egregiamente da Gianluca Turrini e Matt Bordin agli Inside/Outside Studio di quest’ultimo, Apocalips (gioco di parole che evidenzia anche il virtuosismo dei due fiati, che in effetti mettono a dura prova le labbra nell’emissione così rapida e sfrenata) è un lungo rosario di perle di metallo più o meno estremo, infilate una dopo l’altra senza variazioni timbriche o ritmiche troppo rilevanti, tranne in alcune, benvenutissime eccezioni.

Si parte lancia in resta dall’inizio e si arriva a perdifiato fino alla fine; peccato, perché quando i tre si danno un minimo di tregua, allargando le maglie di una scrittura a volte troppo serrata e autoriferita, le cose migliorano (certi passaggi un po’ à la Tool di “Bleeding Moon”, che poi però suona proprio come il metal che non ci piace, epico e sinfonico senza un vero perché). Certi attacchi lasciano a dire il vero a bocca aperta per la bravura dei musicisti, vedi ad esempio l’inizio di “Angels Of The Earth”, che poi di nuovo però suona come una banda (sono in tre, ma spaccano come fossero venti) che si dà all’headbanging. Lo stesso effetto me l’hanno fatto i Brass Against The Machine, che compiono un’operazione simile col repertorio dei RATM. La prima volta sono saltato sulla sedia, poi mi sono detto: “è tutto qui”? “The Fifth Trumpet” è un ibrido coraggioso e alle mie orecchie profane inedito, death metal coi fiati probabilmente non se n’era mai sentito prima, e forse si poteva continuare senza. Si prosegue imperterriti seguendo lo stesso copione, il trombone a fungere da basso e a doppiare la tromba-chitarra: molto potenti i rallentamenti di “Locusts’Army”, meno convincente “Seven Scourges” sino a quando finalmente le acque non si calmano. Poi però si ritorna a pestare senza grande costrutto: sarebbe bastato lavorare di sottrazione, sfrangiare la matassa ritmica di quando in quando, variare le soluzioni (interessanti in tal senso “Twelve Layers Of Stones” e la macilenta “Doom Mood”, ottima davvero e che fa aumentare i rimpianti per ciò che poteva essere e non è stato), invece gli Ottone si sono incaponiti a voler essere pesanti in un modo un po’ didascalico che sicuramente farà scintille sui palchi di mezza Europa (soprattutto in Germania e in Europa dell’Est, ci scommettiamo), ma che in fase di ascolto ci lascia un po’ d’amarezza. Se siete metallari convinti e più addentro del sottoscritto (che invero lo è poco) alle vicende heavy dell’attualità, date loro una possibilità, potreste rimanerne folgorati. Io, come ho già detto in passato, credo che la vera potenza risieda nella libertà e nel controllo, in un delicato, equilibrio tra le due: in questo disco invece sento poca libertà (gli schemi, non particolarmente incisivi, si ripetono spesso) e troppo controllo. Suggerisco alla band di prendersi dei funghi o una sbronza come si deve e provare a suonare abbassando i bpm o liberandosi per almeno una volta in sala, dell’idea di suonare solo metal, o quel tipo di metal. Potrebbe uscire qualcosa di davvero molto, molto interessante. (Nazim Comunale)