KATHRYN MOHR, Waiting Room

Kathryn Mohr accende una luce nel songwriting folk di area sperimentale. Una luce fioca, in quanto inevitabilmente spettrale, ma capace di riscaldare appieno. Queste luci, che siano emanate da candele goticheggianti o dalle lampadine, in copertina, della stanza di cemento, priva di finestre, all’interno della fabbrica di pesce abbandonata dove il nuovo album è stato composto e registrato in autonomia, baluginano proprio come le canzoni, a evocare volendo un po’ la prima Cat Power, un po’ Scout Niblett, un po’ Grouper.

Il sound è grave e crepitante, lo spirito è do it yourself. Per l’artista statunitense fare musica è come un movimento interiore, è come spalancare delle porte su un ipotetico film. Questo film sarebbe probabilmente raccapricciante, a giudicare dai temi trattati: la fuggevolezza dell’umanità, la distorsione della memoria e il trauma, se non addirittura l’imprevedibilità dell’orrore dietro l’angolo, quello per esempio dell’amputazione di un arto causata da un ascensore difettoso (avviene nella sferragliante “Elevator”, vicina alla PJ Harvey di Dry/Rid Of Me).

Di base a Oakland, Mohr unisce ispirazioni geografiche in apparenza agli antipodi, dagli oggetti smarriti trascinati a riva nella baia di San Francisco alle coste di Stöðvarfjörður, un villaggio islandese di pescatori fuori dalla succitata fabbrica, in attesa di riqualificazione. Un luogo dunque di passaggio, dove le pecore sono più numerose delle persone, quasi a farci immaginare scenari in stile Lamb (lì, nella pellicola di Valdimar Jóhannsson, i protagonisti erano però contadini). Un luogo ad ogni modo fuori da logiche lineari.

In Waiting Room, il suo esordio per The Flenser dopo un paio di ep, coesistono le scarne corde acustiche dell’iniziale “Diver”, il ruvido spoken word di “Rated”, i vocalizzi effettati di “Driven”, le serpentine elettriche di “Take It”, il piano-voce straziante con coda avant-rumorista di “Prove It”, l’alt-rock di “Wheel” e i toni maggiormente elegiaci della title-track in chiusura – tutte canzoni frutto di lunghe passeggiate nella natura incontaminata, con il field recorder in mano e il cervello lasciato libero di rimuginare, contorcersi, accartocciarsi. Un interruttore di genuino turbamento.