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GOATMAN, Rhythms

Dopo Capra Informis, Goatman è il secondo membro del collettivo svedese Goat a staccarsi temporaneamente dall’orbita della casa madre con una sortita solista. E quindi è inutile, vista la provenienza, sia cercare info biografiche, sia tentare battute sull’insistenza del collettivo sul termine “goat” che non siano già state dette. Auto-bollato come “world music” sin dalla copertina, e intitolato “Rhythms” giusto per rincarare la dose, il lavoro di Goatman suona molto più filologicamente lineare nel trattare quelle basi afro che la band utilizza per partire per la tangente verso approdi più psichedelici. Linearità che si ritrova anche nel songwriting, rendendo i sei pezzi contenuti in questo breve album molto più diretti e coi piedi (danzanti) per terra di quanto sia lecito aspettarsi dagli svedesi. Afrobeat a palla quindi, blues&soul in egual misura, quella patina vintage da Etiopia anni ’60/’70 che fa sempre la sua porca figura… e il gioco è fatto. Da manuale in tal senso la traccia d’apertura, un groove poliritmico da treno in corsa con assoli sparsi ad accompagnare il viaggio e una sezione fiati come dio comanda, che tra l’altro Goatman utilizza sapientemente in tutto il disco quando c’è da porre dei punti fermi nel fluire delle cose. Tra l’ammiccante afro blues di “Hum Bebass Nahin” e il Gregory Isaacs sotto steroidi Vs. Demon Fuzz di “Aduna”, il cantato a metà tra gospel e sabba isterico che puntella i ritmi febbrili di “Carry The Load” sottolinea come il cordone ombelicale con la materia psych sussista ancora, così come nella chiusura spacey-tastierosa un po’ posticcia e probabilmente fuori luogo di “Baaneexu”. Nel complesso nulla di rivoluzionario, intendiamoci, e con qualche momento fin troppo derivativo. Ma ci si diverte, e a posto così.