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ANIKA, Abyss

Poco tempo fa avevamo parlato degli Hansa Studio berlinesi in relazione ai più sperimentali andereBaustelle Tonstudio di Boris Wilsdorf (EROS), ed ecco che proprio una beniamina della scena indipendente locale, Annika Henderson, ex giornalista inglese trapiantata da anni nella capitale tedesca, registra il nuovo album Abyss proprio là dove da Bowie e Iggy in poi tutto il sancta sanctorum del rock n’roll ha voluto lasciar traccia. È evidente l’ambizione di passare dallo status di interprete di nicchia a dark star internazionale anche nell’intraprendere dal 20 maggio al 12 ottobre un lungo tour europeo e nordamericano.

Pur non possedendo una voce straordinaria – mentre lo sono intenzione, piglio e attitudine – Anika si inserisce molto bene tra quelle chanteuse noir, ambigue e fascinose che nel corso del tempo ci hanno fatto innamorare perdutamente della loro musica come del personaggio interpretato. Vi verranno in mente Nico, l’ex Penetration Pauline Murray, Anita Lane, fino ad Anna Calvi.

Dunque Abyss (Sacred Bones) si rivela immediatamente con l’apertura “Hearsay” il più wave dei tre pubblicati da Anika finora: basso poderoso, chitarra, batteria (grande Belfi Andrea punk) e voce monotono: potremmo essere nel 1980 come nel 2040, lo stilema è quello, il canone in bianco e nero immarcescibile. “Honey”, “Walk Away”, la ballata “Into The Fire”, il furore di “Oxygen”, il rock n’roll targato V.U. di “Out Of The Shadows”, “One Way Ticket”, “Last Song” si susseguono belle e inquietanti con andamento spavaldo, mentre la conclusiva, dilatata “Buttercups” sembra uscita dai titoli di coda del catalogo Marianne Faithfull (R.I.P.), altro impossibile nome di riferimento. Bando allo sperimentalismo, qui si fa una (dark) Star o si muore.