Customize Consent Preferences

We use cookies to help you navigate efficiently and perform certain functions. You will find detailed information about all cookies under each consent category below.

The cookies that are categorized as "Necessary" are stored on your browser as they are essential for enabling the basic functionalities of the site. ... 

Always Active

Necessary cookies are required to enable the basic features of this site, such as providing secure log-in or adjusting your consent preferences. These cookies do not store any personally identifiable data.

No cookies to display.

Functional cookies help perform certain functionalities like sharing the content of the website on social media platforms, collecting feedback, and other third-party features.

No cookies to display.

Analytical cookies are used to understand how visitors interact with the website. These cookies help provide information on metrics such as the number of visitors, bounce rate, traffic source, etc.

No cookies to display.

Performance cookies are used to understand and analyze the key performance indexes of the website which helps in delivering a better user experience for the visitors.

No cookies to display.

Advertisement cookies are used to provide visitors with customized advertisements based on the pages you visited previously and to analyze the effectiveness of the ad campaigns.

No cookies to display.

LIA KOHL, Normal Sounds

All’atto della percezione, il cervello opera una selezione tra i suoni, distinguendoli in due macrocategorie: quelli meritevoli di analisi e quelli che appartengono alla quotidianità, quel mormorio di fondo che ci accompagna lungo il corso della giornata e che viviamo spesso in modo passivo. La natura del suono antropogenico – artificiale e cacofonico – è al centro della ricerca della sound artist statunitense Lia Kohl: quelli che udiamo ma che in realtà non ascoltiamo sono i “normal sounds” a cui il disco fa riferimento. L’idea di per sé affonda le radici agli albori della musica concreta e pertanto è tutt’altro che originale; ciò che rende meritevole di attenzione Normal Sounds è l’attitudine con cui la Kohl elabora questi spaccati di vita urbana, i cui ritmi, cadenze e pattern vengono mimati all’interno di stralunate composizioni per archi e sintetizzatori in dialogica sincronia con i field recordings.

Se “Tennis Court Light”, Snow ci introduce delicatamente nel mondo di Normal Sounds con una densa meditazione per archi in graduale distorsione sonica, “Car Alarm, Turn Signal” è una lezione post-classical bizzarramente retro-futurista, calata nell’ordinario di un’esperienza borghese (come suggeriscono le note della scialba pop song catturate in presa diretta e poste a conclusione del brano).

“Plane”, terza traccia del disco, insiste sulla stessa formula: una scrittura post-minimalista che si sovrappone – tra breaks e ritorni – a field recordings, per poi deviare verso soluzioni ibride e audaci accostamenti stilistici.

L’aderenza a un genere specifico è del tutto irrilevante per l’autrice, intenta a lacerare e ricucire brandelli di suono (macinando, tra le altre cose, anche muzak di circostanza) dando forma a costrutti non-sense dai lineamenti indefinibili. La Kohl non si risparmia tra innesti sghembi, soluzioni zappiane e fumettistiche parodie metropolitane in salsa hard-boiled (“Car Horns”, con il sassofono di Patrick Shiroishi) ma per quanto possegga creatività e capacità invidiabili non sempre le meccaniche compositive scorrono fluide.

In alcune tracce si avverte lo scollamento tra la dimensione catturata in presa diretta e le incursioni strumentali, come se le singole parti faticassero a compenetrarsi. Una scelta stilistica della Kohl, forse, anche se il continuo e ossessivo vagabondare tra stili alle volte crea uno sgradito effetto “frullato” (“Airport Fridge, Self Checkout”, ad esempio) ricordandoci quanto il sincretismo stilistico possa essere una lama a doppio taglio.

Volendo, nel modus operandi della Kohl si potrebbe scorgere l’intento di una moderata critica verso i suoni della contemporaneità e come essi si diffondano nelle città sovrapponendosi in modo del tutto casuale, come una mente che non riesce a rimanere concentrata. Una simile chiave di lettura potrebbe però risultare fuorviante dal momento che l’artista sembra poco propensa all’indagine sociale, preferendo rimanere una giocosa e curiosa (nonché abile e intelligente) manipolatrice di suoni, come testimonia la conclusiva “Ignition”, con la sua divertita ritmica scandita dallo strofinio delle sneakers sul pavimento.