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IOSONOUNCANE, Ira

Nella storia dell’uomo esistono da sempre degli eventi talmente importanti da definire un “prima e un dopo” (vedi alla voce “pandemia”): grandi o piccoli che siano, tracciano una linea di confine tra ciò che era e ciò che è, impostando il percorso che, volontariamente o meno, andiamo a costruire. C’è, insomma, uno spartiacque per ogni cosa così come per la musica, per la vita di ogni artista che, disco dopo disco, sedimenta la propria arte e la propria personalità.

IRA di IOSONOUNCANE, fuori il 14 maggio per la rinata etichetta Numero 1 (che affianca la Famosa Etichetta Trovarobato), rappresenta il solco tracciato a terra per definire un passaggio importante, una determinazione in più dal fortunatissimo DIE. Uscito nel 2015, quest’ultimo ha visto crescere intorno a sé un pubblico via via sempre più trasversale e numeroso, mettendo in luce un artista tra i più poliedrici e completi del panorama italiano attuale, che ha sempre lavorato per sottrazione più che per somma, per contenuto e non per contenitore, nonostante il continuo tentativo di collocarlo dentro circuiti musicali ben definiti: un lavoro di marchiatura tentato da una parte di stampa e media e giocato sulla presenza del cantato in italiano e di una forma canzone che solo nel nucleo portava la firma di certa tradizione italiana, espandendosi poi verso tutto un altro mondo (l’esempio è la pubblicazione a fine 2020 della canzone “Novembre”, scritta molti anni fa ma accolta immediatamente come anticipazione della nuova opera). Un tentativo di apporre un blasone per alzare il livello culturale in un ambiente costituito da dinamiche orientate più sulla creazione di miti ed icone che sulla musica in senso stretto; la capacità di DIE di diventare “fenomeno Pop” (passatemi il termine), nonostante dei temi musicali non propriamente tali, è da attribuire solo ed esclusivamente al disco stesso.

Dal nuovo IRA ciò che emerge subito è quella continuazione di analisi interiore, di costruzione del proprio IO attraverso la composizione musicale, che sfocia in diciassette brani per un totale di un’ora e cinquanta minuti, in completa contrapposizione a ciò che l’agenda discografica oggi impone, dal tempo di gestazione, cinque anni, alla sua durata finale.

Echi e riverberi che costruiscono territori sconfinati, l’uso di antichi strumenti combinati alla musica elettronica, la ripetizione di strutture armoniche che contengono una ritualità quasi religiosa. Il ruolo delle voci cambia e ora sono uno strumento, in alcuni casi al limite della percettibilità, che canta in lingue sempre diverse (inglese, arabo, francese, spagnolo, tedesco ed italiano) diventando moltitudine, coralità, un manifesto politico da appendere sui muri di un mondo separatista, escludente ed egoista. Ogni nota, ogni idea in IRA sono il risultato di un lavoro del singolo adattato alle caratteristiche specifiche dei musicisti presenti nel disco, una somma di visioni proprie plasmate per essere adattabili alle personalità che devono tradurle in suoni. Nondimeno, la presenza di sonorità di matrice jazz e afrobeat lo colloca perfettamente nell’attuale contesto di rivalutazione della cultura nera e africana, confermando ancora una volta la bravura di Jacopo Incani nel leggere ciò che è il presente, senza la necessità di un’esposizione continua e scardinando l’idea ormai preponderante dell’incapacità di conoscere la realtà se corrispondente ad una scarsa, se non inesistente, presenza nel web.

Un album caratterizzato da una graduale complessità che si pone come un discorso unico ma facilmente scomponibile. Ogni canzone è un frammento ben definito che da solo può rappresentare l’interezza del lavoro, ogni singolo brano può diventare un singolo nell’accezione di ciò che oggi la musica di massa viene ad essere intesa dal pubblico attraverso canzoni uniche, senza un prima e un dopo.

In questo caso, però, un prima e un dopo esiste e ciò che prima era IOSONOUNCANE ora è IOSONOUNCANE.