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CESARE BASILE, Saracena

Il cantautore Cesare Basile ha 60 anni ed è in giro da almeno 30. Durante tutto questo tempo ha scavato e scavato, cercando una voce autentica. Forse per questo ha iniziato a cantare in siciliano, che è il suo dialetto. Forse per questo è tornato in qualche modo alla sorgente, cercando il comune denominatore di più tradizioni. Allo stesso modo Saracena, il suo dodicesimo album, è ispirato da storie di esodi (quello dei Saraceni nel Medioevo, quello dei Palestinesi nel Novecento e quello che vedremo a breve adesso, mentre il sangue scorre), ma sembra voler raccontare ogni esodo e ogni esilio.

Da una parte Saracena è acustico e non elettrico: gli strumenti a corda e le percussioni hanno un suono orientaleggiante (mi vien da scrivere “mediterraneo”), scabro, nudo e sembrano sempre sul punto di rompersi. Dall’altra c’è il ricorso a quella che chiamiamo “musica elettronica”, non per rappresentare il futuro come al solito, ma per riprodurre il suono delle macerie e del vuoto. Il disco, però, non è diviso in due parti, è uno solo. Un buon esempio di questa commistione di linguaggi è “C’è Na Casa Rutta A Notu”, che dovrebbe passare agli annali: sembra di essere lì, insieme a Basile, a rimuginare sulle rovine. Un altro pezzo che chiarisce come Saracena cerchi la sintesi è “U Iornu Do Signuri”: un drone elettronico si unisce con quello – presumo – del mizwad (uno strumento africano che però puoi scambiare per una cornamusa) e col salmodiare di Basile, che parla del suo Gesù, che non è il Figlio di Dio, il Messia, quello che fa i miracoli: è anzitutto uno che è stato crocifisso. Ecco come questo signore oggi raggiunge il cuore di tutti: se non ci riesce con le parole, lo fa con un suono primordiale/universale.