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ABOUT BLANK, About Blank

La vita di tutti noi è fatta di cicli, con un inizio ed una fine. Una cosa banale quanto vera, un principio su cui si basa praticamente l’intera esistenza del mondo: “la storia è ciclica”, uno degli adagi più ripetuti a scuola, almeno fin quando l’ho frequentata io, ormai vent’anni fa. La conclusione di una fase, però, non sempre coincide col suo totale esaurimento, così ciò che ci aspettavamo avesse fatto il suo corso ad un certo punto ritorna e magari in un’altra forma.

C’è stato un tempo in cui ascoltavo moltissimo ciò che stava a metà tra Folk e quello che oggi chiamano “Bedroom Pop”: strutture melodiche e di produzione più minimaliste per richiamare quella capacità che ha il Pop di innestarsi nel cervello, ma nella sua dimensione più primitiva, fatta di sola voce e chitarra (o piano), per fotografare l’istantanea della creazione. Dai primi 2000 per i successivi dieci anni circa ho ascoltato tantissima musica di questo tipo, dai grandi dischi del passato alle ultime produzioni, conosciuto e fatto conoscere attraverso i miei programmi radio una realtà italiana molto florida dalla quale nacque anche una “scena”, la stessa che portò alcuni di quei protagonisti a virare verso ciò che poi fu indicato come IT Pop, con il cantato in italiano e tutto il resto. Perché una delle caratteristiche di quella ondata musicale era l’utilizzo della lingua inglese, un marchio di fabbrica che ti permetteva di sperare in una spendibilità all’estero da una parte e dall’altra di prendere una netta distanza dal mondo del cantautorato classico.

 Con il disco di About Blank, uscito l’undici febbraio per l’italiana Beautiful Losers, si è in qualche modo riaperta quella fase, riportando in auge la potenza di certo Pop intimo (mi piace più di bedroom). Un esordio in cui c’è tutto l’immaginario classico del genere, dalla foto di un paesaggio in bianco e nero e un testo scritto a matita che capeggiano in copertina – “In this dirt all is clean, find your own breath and keep it close to me” – al brano di apertura per introdurci nel mondo di Gabriele Dalena fino ad allora stipato dentro un notebook arancione nel quale «i testi scritti erano un’estensione della sua anima, canzoni come auto-terapia» come lui stesso dice.

Nove brani che scivolano via elegantemente tra atmosfere legate al minimale Elliott Smith e momenti di maggiore stratificazione sonora cui Bon Iver ci ha abituato fin da subito e grazie al quale il Folk di maniera è riuscito ad avere una forte spinta a livello commerciale, accendendo i fari su una realtà musicale ben radicata e florida nei territori degli Stati Uniti (e poi nel resto del mondo).

Nel caso del disco di About Blank non mi piace parlare di un ritorno, perché è un termine che non ritengo si addica a nessun aspetto della vita, preferisco raccontare di una nuova fase in cui a quegli schemi iniziali si è aggiunto un tassello in più. Un nuovo modo di esistere di certo Folk in Italia che permetta anche di riconsiderare un aspetto importante sul quale metto l’accento e con cui si apre il comunicato stampa allegato al disco di About Blank: “Chi ha detto che certa musica si fa solo all’estero?”.