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WIDOWSPEAK, Almanac

Almanac

Esce troppa musica, al giorno d’oggi. Lo dicono in tanti, sì. E alle volte, chi fa affermazioni di questo tipo non ha proprio tutto il torto dalla sua. Quando si ascoltano certi dischi, si ha proprio la sensazione di esser circondati da musica che è al massimo carina e nulla più. Musica che dopo pochi ascolti è relegata al dimenticatoio. Le melodie non pungono e non scuotono, anche se ogni suono è al suo posto, lì dove deve stare, senza imperfezioni di sorta e senza sbavature. Bello, no? Senz’altro  ma quando mancano le canzoni, la perfezione ce la possiamo infilare dove tutti ben sappiamo. Ci sono dei generi ormai consolidati a tal punto che basta saper suonare decentemente per poterli riproporre come Dio comanda. Ma oggi le sette note necessitano soprattutto di belle canzoni. A nessuno ormai viene chiesta la rivoluzione: c’è appunto bisogno, per lo meno se si tratta di rock, pop e derivati, di gente che le sappia scrivere. Oggi tutti si possono esprimere, perché è più facile registrare e promuovere un disco, ma nella sfera dei contro c’è senza dubbio la valanga di roba da cui siamo sommersi, in cui è sempre più difficile rintracciare la vera qualità.

Scrivo tutto questo per parlare di un album che ai primi ascolti, davvero, non mi è dispiaciuto affatto. Quello dei Widowspeak è un lavoro che, con i suoi dodici brani, propone un’attitudine “wave” mischiata a folk per voce femminile, che riprende piuttosto sapientemente la PJ Harvey meno aggressiva, alternando versioni chitarristiche e più malinconiche di Regina Spektor a suggestioni elettroacustiche condite di atmosfere dilatate, notturne, che riportano alla mente alcune cose dei Mazzy Star. Hope Sandoval, alle volte, è davvero dietro l’angolo. Non vengono poi disdegnati echi dream-pop, con più di una linea melodica affine a quelle dei Cocteau Twins.
Il problema, ad ogni modo, è il seguente: dove sono le canzoni? Nessuna di quelle presenti in Almanac può dirsi brutta, e al contempo nessuna può dirsi realmente bella a tal punto da essere ricordata con entusiasmo, pensata e ricantata nei più bui momenti di malinconia.
Non è colpa della band di Brooklyn, chiaro: la loro seconda fatica in studio non è certo da cestinare. Anzi: è da lodare per l’ottima cifra stilistica, per quella spiccata sensibilità musicale che permette loro di rielaborare le più disparate influenze, facendole confluire in una loro personale poetica. Però, ripeto: dove sono le canzoni? Troppi pezzi carini e nessuno che spicca davvero sul resto. Tutto fin troppo nella media, dunque, ma con una veste sonora ineccepibile. Davvero ci accontentiamo di così poco?


Tracklist

01. Perennials
02. Dyed In The Wool
03. The Dark Age
04. Thick As Thieves
05. Almanac
06. Ballad Of The Golden Hour
07. Devil Knows
08. Sore Eyes
09. Locusts
10. Minnewaska
11. Spirit Is Willing
12. Storm King