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THE NECKS, Three

THE NECKS, Three

“Il trio più bello del mondo”: li aveva definiti così Geoff Dyer qualche anno fa sul New York Times, in un articolo che celebrava i 30 anni di carriera di questa formazione strumentale australiana, nel quale il giornalista britannico non nascondeva affatto di provare per loro un amore ossessivo.

E se la sua definizione avesse per caso solleticato alcuni ad avere un pensiero malizioso, come ad esempio quello di immaginare un ménage à trois, allora quale metafora più appropriata per una band che ha debuttato nel 1989 con un disco chiamato intitolato “Sex”?

Diciamolo: questa è una threesome riuscitissima, un poliamore che dura da così tanti anni per la qualità dei suoi elementi e la voglia continua di sperimentare fra jazz, ambient, minimalismo, post-rock e classica contemporanea.

Three è il loro ventunesimo album, il titolo è probabilmente riferito alle 3 composizioni da 20 minuti che lo abitano, ed è una ghiotta occasione per avvicinarsi al loro ascolto, dato che solitamente sono dediti pubblicare singole tracce da 50 minuti circa.

Si comincia con “Bloom”, che parte immediatamente con una fitta trama di percussioni suonate dal batterista Tony Buck (reduce della collaborazione con il musicista etiope Hailu Mergia), portata avanti per tutta la durata della traccia e che insieme alla linea del contrabbasso di Lloyd Swanton crea un vortice ipnotico sul quale Chris Abrahams ha la possibilità di poggiare ripetuti accordi di piano, affiancati solo in alcuni momenti da brevissimi accenni di solo con un sintetizzatore monofonico.

Molteplici le suggestioni che si creano mano a mano, con i pattern ritmici che nella loro ciclicità sembrano richiamare il suono delle pale di un elicottero in volo, e allucinazioni uditive come quella che ho avuto io, percependo un immaginario arpeggio di “On The Run” dei Pink Floyd nascosto nel mix, egregiamente curato da Tim Whitten.

Segue “Lovelock”, un epitaffio dai toni decisamente più ambient e dark, dedicato all’omonimo frontman australiano dei Celibate Rifles, scomparso nel 2019. I suoni si fanno più eterei, una texture di campanellini, e archetti sui piatti e sul contrabbasso, dove il tempo viene scandito dalle rullate e dalle scale sul piano, accompagnate da qualche rumore di chitarra in feedback e da un organo in lontananza, tutto rigorosamente lento come solo i The Necks sanno fare.

Chiude il cerchio “Further”, introdotta da una rullata che sembra presa in prestito dalla traccia precedente e che mette il cappello sull’intero album con un seducente groove in 15/8 o 5/4, dove in background ritroviamo un magma di percussioni simile a quello di “Bloom”. Torna in mente l’estetica dei primi lavori, quella capacità di prendere un tema e giocarci riproponendolo innumerevoli volte, aggiungendo strati sonori senza mai appesantirlo e scavando senza mai interromperne il flusso.