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ROSCOE MITCHELL, Splatter

Roscoe Mitchell, ovvero l’arte di spostare sempre avanti ed altrove i confini della musica creativa. Il musicista e compositore afroamericano è protagonista di quest’ottimo disco per la collana che documenta le esibizioni durante i festival di Angelica.  Concerti di tre anni fa, ai quali eravamo presenti. Un discorso rigoroso e liberissimo del quale non ricorderemo una sola parola: ne custodiremo però il mood sorvegliato e anarchico a un tempo, come di veglia alla fine di un mondo conosciuto. Come scriveva il poeta norvegese Rolf Jacobsen, è finita l’epoca delle sinfonie, e ciò che resta oggi, in questi tempi allagati e disastrati, è la possibilità di mettere in musica questa deriva, questa sparizione di senso, di direzione, di una idea di Storia con la maiuscola. Roscoe Mitchell mette questo disorientamento su carta; molto affascinante la metodologia di lavoro: le trascrizioni di brani d’improvvisazione fungono da fondamenta per costruzioni orchestrali. Semplicemente fantastica “Distant Radio Transmission”, su un canovaccio improvvisato originariamente da Mitchell con Craig Taborn e Kikanju Banu, e con la presenza del baritono Thomas Buckner alla voce che si avventura in acrobazie espressioniste à la Phil Minton/Stratos, a dire il vero senza replicarne la medesima potenza immaginifica. Un suono densissimo e rarefatto, monumentale e imprendibile, narrativo anche se non sappiamo bene dire di cosa, ipnotico, gravido di luminosissime minacce, siderale e profetico. “Il silenzio così com’è è perfetto. Bisogna avere molta cautela quando lo si infrange”: ecco l’ennesima dimostrazione in musica del modus operandi di un genio. Riascoltando il disco torna alla memoria l’iconica figura di Mitchell seduto in prima fila, perso nei misteri stessi del proprio suono. Suono che raggiunge profondità e vette maestose in duo con l’organista Francesco Filidei: lo stupore e la difficoltà nel restituire la forza rivoluzionaria e austera di tale magistero restano intatti a tre anni di distanza. L’organo convoca inafferrabili dei a gestire la tempesta, mentre Mitchell apre squarci di luce fugace in una coltre impenetrabile e bellissima; minimalismo, Bach perso in un incubo, Ligeti, Riley, un drone impazzito in un moto browniano free, addirittura quasi una giga celtica, il suono definitivamente, inesorabilmente, gloriosamente libero che nulla ha da dire se non celebrare la propria deriva nell’ignoto, nello spazio cosmico e intimo, nelle mappe interstellari, negli abissi della nostra psiche dove ogni parola finalmente naufraga.

Quarantotto minuti di migrazione e vertigine a spazzare via tutti le nostre stupide intenzioni di definire, la nostra volontà di capire, i nostri fatui discorsi. Comprate questo cd, alzate il volume al massimo, spegnete ogni dispositivo, chiudete gli occhi e apriteli verso dentro, come suggeriva Octavio Paz, per perdervi poi in questa selva magnetica. Si accenderanno in testa idee terribili e meravigliose, di cui poi, ritornati al silenzio, non ricorderete nulla. E così all’infinito.