NITON, 11
Ho sempre vissuto Niton come un progetto molto vicino e allo stesso tempo molto lontano, a livello personale. Si sono formati e hanno iniziato il loro percorso con Pulver Und Asche non appena ne sono uscito e ho sempre visto in loro un alone misterioso e intrigante. Oggi, dopo 11 anni di onorata carriera, il trio creato da Luca Martegani, Enrico Mangione e Zeno Gabaglio corona il suo stesso sodalizio con un album speciale, nel quale si circonda di amici e ospiti musicali. Data l’ampiezza dei percorsi dei tre musicisti, altrettanto ampio è il carnet degli ospiti, considerando che passiamo da Andrea Fumagalli/Andy a John Butcher, solo per nominare due sassofonisti. Gli ospiti, però, sono 11, 10 le tracce e molte le storie che prendono vita. In “Noi” è la voce di Maryem Aboulouafa a farsi spazio attraverso una musica comunque diradata, con un canto e un racconto che ci accolgono circospetti all’interno del disco, e con una poesia d’amore: “… futuro, passato, presente” recita nel finale, posizionando forse questa storia. Una storia impervia, com’è ovvio che sia quando si sceglie Julian Sartorius come asse ritmico di un proprio brano, consci del suo vagheggiare. I tocchi sembrano spostarsi con dinamismo avanti e indietro mentre la musica di Niton ruota intorno alle percussioni, quasi inglobandole. Il sentore è che in 11 la formazione insubrica abbia optato per un approccio conservativo e allo stesso tempo elusivo, suonando attraverso i propri ospiti lasciando loro il proscenio. In “Lampo” c’è però un dialogo più carnale fra il violoncello di Zeno Gabaglio e i soffi di Boris Hauf, in un insieme composito. John Butcher trasporta tutti quanti in un’altra dimensione, dove i suoni si fanno materiali e l’unione sembra essere quella di un folle quartetto, tra Matmos e Scratch Pet Land. L’ultima del lato A è uno snodo importante, considerando che l’incrocio arriva con i Peter Kernel, anch’essi autori di un disco lo scorso anno nel quale gli ospiti (in quel caso tutti batteristi) furono il leitmotiv ritmico della produzione. Dopo qualche parola da parte di Barbara, la chitarra parte a cucire strali a bassa intensità fino al crescendo percussivo e deteriorato che ne consegue, in mille rivoli stilistici che stridono in maniera molto ringalluzzita fra noise-rock, improvvisazione, jazz e sperimentazione. Un vero e proprio brano psych, che ci permette di prendere il volo e assaporare Olivia Louvel in un differente stato di gravità, smooth e intensa. Beatrice Graf si dimostra in grado di far emergere le asperità necessarie, riportando la giusta tensione da poter scatenare in un ballo fra input digitali e percussioni, scatenando movenze entusiaste, che scendono fino a derubricarsi in moduli jazz quasi confidenziali, perfetti nell’accompagnare i Niton nel torbido dove regna Andy Moor. Con lui, invece, si tende a orchestrare un tappeto sonoro ben specifico, per un altro viaggio psichico, con strumenti che combattono e lottano. Un brano che rischia di essere difficile da inquadrare con altro e invece… e invece, per magia, direttamente dal Camerun arriva Achille Bëti be Kóló, sciamano/curatore d’etnia, in grado di collegarsi al primo pezzo dando la circolarità perfetta al vinile. E i Niton, direte voi? Sopra e sotto tutto, registi e alfieri, promotori e sperimentatori, punti cardinali e centrini di livellazione. Presenti e tonici, larghi e accoglienti, perfetti nel gestire una possibile esondazione sonora con gusto e misura, dando conferma di maturità e gusto.