JONNINE, Southside Girl
In “Sap”, l’artista di Stand-Up comedy Mae Martin parla dei nostri ricordi, di quanto, a suo parere, assomiglino a quelle palle di vetro riempite di neve che tutti abbiamo ricevuto, o regalato, almeno una volta.
Io ne ho una che amo molto: contiene una miniatura della piazza di Pietrasanta, il posto dove ho imparato tutto l’imparabile sull’amore, il calcio e il marmo bianco. Anche a Pietrasanta ci sono il mare, la sabbia, le caramelle frizzanti, e anche Jonnine probabilmente ha una palla di vetro con dentro quel beachside feverdream che descrive a lungo in questo disco, evocandolo con un rituale a metà fra la tavola OUIJA e una seduta di psicoterapia di quelle in cui parli solo tu, mentre il tuo psicologo si guarda le mani.
Il punto è che, tornando a Mae Martin, con queste sfere piene di meraviglie, poi, non facciamo molto se non mostrarcele a vicenda, e che le nostre conversazioni diventano una somma di momenti in cui aspettiamo il silenzio dell’altro per tirare fuori un altro pezzo di noi, per definirci, senza accorgerci che ci stiamo perdendo il racconto di chi abbiamo di fronte.
Questo disco di Jonnine è un bellissimo souvenir di adolescenza, un rarefatto diorama sonoro di voci lontane, echi di lezioni di piano, fruscii di piedi nella sabbia e canzoni sussurrate. Trinket-core, come lei stesso lo definisce.
Southside Girl è un’opera densa di vita vissuta, che fatica a entrare sottopelle come vorrebbe per via di uno stile che oscilla fra il troppo semplice e il troppo complicato, ma trova invece la sua vera importanza nel suo essere pura memoria sonora in un momento storico fin troppo visivo. Ce ne fossero, di diari sonori così.