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DREKKA, Unbeknownst To The Participants At Hand

Drekka

La presentazione dell’americano Michael Anderson è già stata fatta quasi un anno fa, quando affrontammo il drone gelido e le asettiche e sofferte armonie di Ekki Gera Fikniefnum. Lo ritroviamo, e sempre per la rinomata Dais, con questo nuovo lavoro, meno suonato, più corrosivo e dal carattere diametralmente opposto, più urticante e diretto.

Unbeknownst To The Participants At Hand deve il suo titolo al fatto che incamera, facendole poi interagire, voci d’archivio non sue, vecchie registrazioni tenute nel cassetto e passaggi live – tra cui uno anche a Taranto – di cui i reali autori pare non sapessero nulla (all’insaputa dei partecipanti, appunto). Distorsioni elettriche, cartavetro e musique concrète, come dire l’incontro tra il rumore grezzo e blasfemo dei Whitehouse, la sinfonia del genocidio del maestro Maurizio Bianchi e le istrioniche opere di Nurse With Wound condite con formule esoteriche e strazi. È un collage di rumori e voci caotiche (lame, voltaggi alta tensione e sfilamenti ectoplasmatici) assemblate in modo da ottenere flussi magnetici ricercati e un concretismo super filtrato, esattamente come quando si osserva di notte la volta celeste, scattando un’istantanea e catturando così la massima luminosità delle stelle, quelle lontane anni luce e magari morenti o già morte (sto immaginando quella specie di melodia carillonesca o da glockenspiel rotto che fuoriesce da “Unbeknownst Part III”).

Non ho il dono della telepatia e non sempre riesco a leggere tra le righe, cerco solo di interpretare il messaggio emesso dal disco, che ha tutta l’aria di essere stato pensato e registrato avendo in testa tanta foschia grigia e impenetrabile, una dismessa fabbrica petrolchimica e un manor ottocentesco infestato dai fantasmi (The Seventh Continent).