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BUÑUEL, The Easy Way Out

L’assassino torna sul luogo del delitto, e così obbedisce alla regola anche Buñuel, la band formata da Xabier Iriondo alle chitarre (Afterhours, il negozio/etichetta SoundMetak a Milano, Uncode Duello, TodoModo e altro ancora),  Pieraolo Capovilla al basso (Teatro Degli Orrori, One Dimensional Man) e Franz Valente (Teatro degli Orrori) alla batteria con in aggiunta la voce maniacale e iper espressiva di Eugene S. Robinson (Oxbow).

The Easy Way Out è un trattato di psicopatologia in 11 capitoli, un’indagine nelle viscere del noise blues più fangoso e classico; pur senza esplorare territori ignoti, questo viaggio al termine della notte convince grazie alla grande padronanza della materia dei quattro coinvolti e sconvolti. Da manuale l’apertura con “Boy To Men”, dove su un groove macilento trafitto da chitarre livide si erge ferita e sardonica la voce teatrale di Robinson, gigantesco e ubriacante nel suo incedere ossessivo e metamorfico, tra sussurri e urla. Nulla di nuovo sotto un sole indifferente, ma ci siamo, decisamente. There is nothing about me worth saving, si lamenta il minotauro perso in un labirinto di specchi Jesus Lizard, quando invece questi cinque minuti aprono perfettamente il sipario su questo mondo nero e crudele. Tra Flipper, frecce avvelenate della Amphetamine Reptile, Nick Cave incazzato più che con i Grinderman, Tom Waits a braccetto con gli Helmet (anche se il suono è molto meno squadrato, ha più profondità), il quartetto sa come spaccare pur utilizzando i soliti elementi: un ritmo tribale, un basso che esce dalla palude, chitarre piene di ruggine e rancore, interferenze, voci che somigliano a quella di Robert Mitchum nel capolavoro “La Morte scorre lungo il fiume”. “The Hammer The Coffin” funziona bene, i due minuti sputati a terra di “Dial Tone” ripetono lo stesso canovaccio aggiungendo uggia punk e dicono meno, ma quando vengono azzeccati i passaggi giusti (la lama intinta nello Xanax di “Sorrowful Night”, il riff schiacciasassi di “The Sanction”) non c’è altro da dire se non alzare il volume al massimo.

Chi scrive avrebbe accolto con piacere una maggiore anarchia, più disordine nell’ordire trame che sono sì perfettamente calibrate ma che a volte fanno intravedere un poco di mestiere. Ogni traccia viene comunque sempre salvata dal possibile dimenticatoio dalla performance vocale di Robinson, un cantante semplicemente perfetto per questo tipo di suoni, lirico e maniacale allo stesso tempo. Si discosta finalmente in parte dai sentieri battuti “The Roll”, la settima traccia, con la voce di Kasia Meow e con il solito basso efferato, ma anche con suoni quasi chiesastici di tastiere e un riff che lascia intravedere spiragli di luce e suona meno annodato e malmostoso. Si ritorna poi subito negli abissi di una mente malata con “Augur”, mentre “Shot” è un altro minuto di foga punk dove la voce della compagna di Robinson non convince, ma i suoni di chitarra elevano il pezzo di una spanna.

Questo disco è tutta una discesa agli inferi, quindi si capitombola all’istante, ed è di nuovo notte dell’anima in “Where You Lay”, come un racconto di Jeffrey Dahmer, il mostro di Milwaukee, mentre sullo sfondo un  boogie catatonico e infernale va in scena, tra John Lee Hooker e l’antrace del noise più bieco: Stand Up / Or i’ll beat you where you lay […] If you don’t relax / but it’s hard to relax / with my hands around your neck. Chiudono i due minuti enigmatici ed astratti di “Hooker”, tra lampi di ambient rarefatta (molto buono ancora il lavoro delle chitarre) e inni al Grande Nulla che avanza e di nuovo un magistrale Robinson alle prese con angeli e demoni, tra sbornie metafisiche e balbuzie, un perfetto Virgilio per una via crucis che sa offrire momenti da brividi. Can’t you see? Can’t you see?, è l’ultima domanda dell’Ulisse nero, quasi un haiku lynchiano per un disco che farà sicuramente scintille dal vivo. Sa essere così accogliente il buio, vero? Ma la via d’uscita è semplice.