BROTHERHOOD, Oak

Il suono come un albero secolare sotto il quale trovare riparo e invocare le divinità che stanno oltre le parole.

Ha un che di rituale e di pre-alfabetico questo buonissimo lavoro del duo Brotherhood, composto dai fratelli Bondesan: Tobia (sax tenore e soprano) e Michele (contrabbasso). Un clima austero, denso di veglia, di attesa. Economia di mezzi che non si traduce in povertà espressiva ma anzi fa risaltare le idee messe in campo, che parlano una lingua che nulla ha di inaudito ma sa colpire per la potenza, la sensazione di verità, di urgenza che trasmette. Dubbi, dialoghi, ipotesi, parentesi: un vagare circospetto tra ombre, rovine, apparizioni, premonizioni. Rituali sul bordo del silenzio con il profilo di Steve Lacy ad annuire sornione. Una musica densa e scarna, sghemba, che pone domande invece di dare risposte. Ci porta in posti che sappiamo ma non sappiamo riconoscere, facendoci sperimentare ancora una volta il brivido dell’immersione nel liquido amniotico del suono. Acqua, respiro, pulsazione, ventre: da quell’intimo mare veniamo e alla stasi minerale delle ossa torneremo. Passando su questa terra come ombre, nella foresta dei significati, inseguendo e venendo inseguiti. Intanto, invece che usare le parole che spesso vogliono dire poco meno del nulla da cui tentano la vana fuga, emettiamo suoni, come una preghiera laica ed ancestrale.

Molto bello l’artwork di Nicola Guazzaloca. Un disco da ascoltare al crepuscolo, quando finalmente le nostre intenzioni verranno sconfitte dal buio che avanza.