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BEATRIZ FERREYRA, GRM Works

GRM

Tanto del prestigio raggiunto dalla culla della ricerca fonologica GRM de Paris lo si deve a ricercatori di origine straniera, argentina ad esempio. Daniel Teruggi, Horacio Vaggione (ne sto dimenticando sicuramente qualcuno) e in questo caso Beatriz Ferreyra.

Introdotta allo studio di armonia e analisi intorno al 1962 da Nadia Boulanger, Beatriz si avvicinò poco tempo dopo alle sperimentazioni elettroniche e concrete, prendendo poi parte – nel 1967, con Guy Reibel – al documentario audio “Solfège De L’Object Sonore”.
Risalgono proprio alla seconda metà degli anni Sessanta i traguardi compositivi “Demeures Aquatiques” e “Médisances” qua raccolti. Occorre però subito soffermarsi su alcune caratteristiche che già andavano delineandosi nel tipo di ricerca intrapresa dalla Ferreyra e nel tipo di ricerca che su più vasta scala avrebbe investito la produzione targata GRM. Già nel ’66 Schaeffer, con “Traité des objets musicaux”, riuscì nell’intento di stendere un ricettacolo di criteri sensibili impiegabili nelle operazioni di analisi sonora. Provvidenziale in quest’avanscoperta fu l’adozione delle sculture sonore dei fratelli Baschet, che si aggiunsero alle più consuete attrezzature (magnetofoni, microfoni, filtri, oscillatori annessi e connessi) e alla già nutrita libreria audio dello studio, anche se tale apparente infatuazione per il materiale, unita poi a terminologie “impegnative” come “ascolto ridotto” (1) (chiaro rifacimento della riduzione husserliana), non fece tardare equivoci. Tant’è vero che lo stesso Schaeffer qualche anno dopo tenne a precisare: “La parola ‘concreta’ non designava una fonte. […] nella mia mente questo voleva dire prima di tutto che erano presi in considerazione tutti i suoni […] in rapporto a tutte le qualità che contenevano” (2). Tutto torna e in un certo qual modo si rimarcano le precise finalità attinenti a una “fenomenologia dell’ascolto”. Lemmi quali spectres, hauteurs, timbre, seuils temporels (3) e altri ancora avrebbero terminato la costituzione di un primo verbo acusmatico, finalmente pronto per venire accolto da compositori (Parmegiani, Bayle e molti altri ancora) che negli anni successivi avrebbero fatto la nuova fortuna dello studio parigino.

Con premesse del genere non è difficile immaginare la sortita di questo disco. A ben vedere, già nel docu-manifesto le parti curate dalla Ferreyra su morfologia (4) e “articolazione” dell’oggetto sonoro suonavano come dichiarazione d’intenti. Più che spiegare, la sensazione è che in quel momento si stesse spiegando, arrivando poi, nelle righe proprio qua da lei impiegate per descrivere “Demeures Aquatiques”, quasi a metaforizzare quel suo formulario tecnico: “I wanted to illustrate the perpetual attempt by the solid and the fluid to interpenetrate via this experimental approach through earth, sea and air: overlapping elements folding inwards, bursting as tiny particles toward soft and flat surfaces […] The impression of fixity conveyed by the obsessive repetition of a sounding object dissolves and breaks through this dialogue between sound entities of a different nature, eventually shifting into a movement”.

Impressioni da un’Atlantide sprofondata, e sta in questo continuo rimandare a una “materia suscettibile” il nesso cercato e voluto tra pratica empirica e mezzo scientifico. Prendiamo la morfosi alchemica di “Un Fil Invisible” (2009) o le armonie sferiche di “Les Larmes De L’Inconnu” (2011), il cui ammasso iniziale di effetti doppler sembra prendere le vaghe sembianze di un “Glissandi” ligetiano all’ennesima potenza (va bene, non è proprio il pezzo più fortunato del magiaro, di cui tra l’altro Beatriz seguiva i corsi a Darmstadt, ma tant’è). È come se questa “intuizione sensitiva” stesse rivendicando come propria l’espressione estetica, sottraendola al giogo di quei “criteri sensibili” e dimostrazioni tecniche. L’eruditismo sedentario ritorna divinazione oracolare.

Del resto, sull’attualità e sull’interesse che questi lavori sono ancora in grado di suscitare non penso ci siano dubbi, e notare come nessuno dei due brani “d’archivio” risenta, almeno non troppo vistosamente, dell’età farà piacere a molti (forse soltanto la frottola elettroacustica “Médisances”, risulta, comunque per precise scelte, un pastiche volutamente abbozzato, quasi una parodia acusmatica).

Insomma: tutto fuorché roba da museo. Il merito può essere spartito in modo equo tra una Ferreyra già pienamente consapevole dei mezzi in uso all’epoca (e qui potrebbe aver giocato un ruolo importante la sua breve esperienza negli studi RAI, dove probabilmente familiarizzò con i nostri famosi nove oscillatori… a proposito di musei…), Jonathan Fitoussi con il suo restauro digitale e Rashad Becker per quanto riguarda la manovalanza.
Infine vogliamo anche noi spezzare una lancia a favore di quest’operazione messa su dalla Mego insieme all’archivio dell’INA-GRM. Se è vero che il periodo del secondo Novecento è stato caratterizzato da un proliferare di ricerche nei più svariati ambiti musicali, è doveroso sottolineare l’importanza di pubblicazioni del genere (connotate tra l’altro dal raffinato taglio estetico a cura di Stephen O’Malley), perché prima di tutto consentono di andare sistematicamente a ritroso in percorsi altrimenti soltanto labirintici.

Fonti biografiche: beatrizferreyraeng.blogspot.it

Note

1. cfr. G. Matteucci F. Desideri, Dall’oggetto estetico all’oggetto artistico, p.67, 2006, Firenze University Press
“Si chiama oggetto sonoro qualsiasi fenomeno o evento sonoro percepito come un insieme […] e inteso in un ascolto ridotto che lo osserva per lui stesso, indipendemente dalla sua provenienza o dalla sua significazione.”

2. cfr. M. Chion, L’arte dei suoni fissati o la musica concretamente, p.27, 2004, Edizioni interculturali

3. cfr. Solfège De L’Object Sonore, 1967, ORTF

4. cfr. ibidem