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MITO & ISAO

Bill Laswell presenta The Master Musicians Of Jajouka, 14/9/2014 – Viaggio alla fine dei giorni. Andrew Poppy / Julia Bardsley, OvO, Tim Hecker, 20/09/2014.

Torino, vari luoghi.

Vi presento una rapida ricognizione su due importanti kermesse che si intersecano tra le città di Milano e Torino. L’ISAO Festival (che sta per “Il Sacro Attraverso L’Ordinario”) viaggia in parallelo al più grande – e complesso nel programma – MiTo Festival. Io vi porto la testimonianza di un paio di eventi, chiaramente i più vicini alla mia sensibilità, e quelli più in sintonia coi lettori di New Noise.

Teatro Regio

Appena saputo del binomio, ho pensato: sarà straniante ascoltare le possenti note del basso di Laswell in un proscenio prestigioso, per tradizione votato all’Opera e al Balletto, come il teatro Regio. Infatti ne ho subito conferma quando ascolto le prime note di quest’atteso concerto. Un’ora e mezza (bis compreso) sufficiente per proporci le rivisitazioni di alcuni pezzi storici della band marocchina, celebre dalla fine dei Sessanta per le frequentazioni con uno del calibro di Brian Jones. L’omone newyorkese si prende la briga di rimettere in pista quelle musiche (che ai tempi affascinarono anche William Burroughs) che col passare degli anni non perdono quasi nulla in efficacia compositiva. Va premesso che chi è rimasto dell’ensemble iniziale ha già una certa età ‒ e si vede ‒ ma il più giovane di loro, Bachir Attar, erede e prosecutore della sigla, ci mette volontà e grande abnegazione, con Laswell e la band a fare più o meno da “comprimari”. Oltre al bassista dei Material troviamo Ayib Dieng alle percussioni (delicato e preciso il suo apporto), ai fiati Graham Haynes e Peter Apfelbaum (tromba e cornetta, e sassofono tenore) e soprattutto il portentoso Hamid Drake alla batteria, che dà carica al live (pure troppa per la verità, ma il suo stile è questo: prendere o lasciare). A conti fatti si è trattato dell’esecuzione di tre/quattro pezzi, dove l’alternanza tra la parte “berbera” e quella “occidentale” avviene più o meno in maniera lineare, ma in certi punti sbavature e – soprattutto – una malcelata confusione esecutiva si avvertono lo stesso. Attar cerca in tutti i modi di sciogliere l’atmosfera, il volume risulta a tratti pure tonitruante, non va dimenticato che l’impianto è quasi da stadio e non da teatro dell’Opera. Quindi ho avuto la sensazione di assistere ad una sorta di festa “caotica”, dove tutti provavano a sintonizzarsi senza però riuscire nell’intento primario. Può sembrare scontata come considerazione ma, quando suonano da soli, i Master si sentono per quello che sono davvero, e l’esibizione ci guadagna. Ciononostante è giusto dare atto a Laswell di aver avuto il coraggio di proporci un evento del genere, che rimane piacevole pur non rientrando tra quei concerti che si faranno ricordare in futuro.

Teatro Colosseo

ISAO

Qualche giorno dopo è la volta di una serata dedicata alle sonorità meno convenzionali (più o meno a tema “spirituale”, per semplificare), organizzata dall’ISAO Festival (con Fabrizio Modonese Palumbo tra i membri della direzione artistica), e i nomi coinvolti sono di tutto rispetto. Premetto che non conoscevo gli esiti della collaborazione tra gli inglesi Andrew Poppy e Julia Bardsley (scopro che il primo ha un passato piuttosto rimarchevole, fatevi un giro sul web e capirete perché): rimane un’idea degna di nota, anche se a conti fatti non centra proprio il bersaglio. Vado con ordine: è netta la sensazione di avere a che fare con un “dandy” tutto preso a rimasticare pose à la Brian Ferry o con dei Talking Heads mescolati alla propensione a deviare decisi verso lidi da pop robotico (a un tratto è sembrato di vedere quasi una rediviva Laurie Anderson) o ancora da pianismo febbrile à la Philip Glass. In teoria la cosa poteva funzionare, ma nei fatti – e nonostante le interessanti immagini in sincrono con la musica – il risultato rasenta in parte una certa noia.

Le cose cambiano con gli OvO, il duo ormai ha una storia dietro le proprie spalle direi piuttosto importante. Va registrato un cambiamento deciso nel suono (lo testimonia l’ultimo Abisso), che si è fatto più rotondo e ha smussato certi spigoli, diventando cosi più “metallico”, meno nervoso e post-punk. L’esibizione fila liscia come l’olio, Dorella è il solito batterista pestone e determinato, e la Pedretti salmodia convinta. L’ideale sarebbe stato però vederli in un ambiente più raccolto, la dimensione teatrale – per quanto “comoda” – non si addice loro poi molto.

Chiude quasi al buio il talentuoso Tim Hecker, uno che ha provato a coniare una vigorosa rilettura di certa musica “elettronica”, usando anche strumenti analogici, e che sta facendo strada grazie a una buona originalità espositiva (e mediatica). Questo non basta però a far allontanare da me una strana sensazione di déjà vu, che avvolge l’intero act, che per la verità si trascina piuttosto macchinalmente e senza particolari sussulti. Di sicuro molta parte del pubblico apprezza, e lui, da dietro il suo banco di lavoro, alla fine saluta contento e se ne va.

Torneremo il prossimo anno.