Zeno De Rossi: la coscienza di Zeno, ovvero The Bordon Mixtapes

Elpis è l’ultimo, ottimo disco in trio di Zeno De Rossi, assieme a Giorgio Pacorig (per chi scrive uno dei migliori pianisti italiani e non solo) e a Francesco Bigoni, pubblicato dall’etichetta di Chris Speed. Un disco eclettico (basti dire che inizia con una cover di Daniel Johnston) e ispirato che ci è piaciuto parecchio, così come ci aveva conquistato Zenophilia, assieme a Filippo Vignato e Piero Bittolo Bon. Se aggiungiamo che con il musicista in questione condividiamo, tra il serio e il faceto (ma i più seri di solito sono proprio quelli che scherzano tanto, o no?) i languori per il pallone dei tempi di Tutto Il calcio minuto per minuto e un grande amore per Mark Hollis, capirete che era naturale approfittare di quest’ultima uscita per conversare in lungo e in largo. Dal San Paolo di Napoli è tutto, a voi la linea.

Il nuovo disco comincia con una scelta desueta, una cover di Daniel Johnston.

Ho scoperto la musica di Daniel Johnston circa quindici anni fa tramite il mio fraterno amico Alessandro “Asso” Stefana, che mi fece sentire Rejected Unknown mentre eravamo in tour con Vinicio Capossela. Inutile dire che fui subito rapito dalle sue stralunate canzoni e in particolare da “Cathy Cline”, che evidentemente mi colpì in profondità, restando nel mio subconscio fino a quando decisi che sarebbe stata una cover perfetta per il mio trio con Francesco e Giorgio.
Ricordo che qualche tempo più tardi, sempre con Asso, mi trovavo a Madrid e proprio sotto al nostro alloggio c’era un locale dove Johnston aveva suonato pochi giorni prima. Fuori era esposta una bellissima locandina che promuoveva il concerto, un suo disegno che fu utilizzato anche come cover del documentario sulla sua vita, girato da Jeff Feuerzeig, “The Devil and Daniel Johnston” (che consiglio caldamente).
La mattina seguente scesi per vedere se fosse stato possibile recuperarla, ma nel giro di una notte il locale era andato letteralmente in fumo senza che noi ci accorgessimo di nulla.
Sicuramente è stato il più grande outsider dell’ultima scuola di cantautori americani.

Mi spieghi e poi mi racconti cosa ascolti, a parte il jazz?

Sono un ascoltatore onnivoro, anche se negli ultimi due anni, cioè da quando i miei figli si sono moltiplicati da uno a quattro, non ho più avuto molto tempo libero da dedicare all’ascolto dei dischi. Per dare un’idea, però, di cosa intenda, posso dire che durante il lockdown ho approfondito il repertorio di alcuni artisti come: Lou Reed, Randy Newman, Sam Cooke, Bill Withers, Steve Reich, Little Jimmy Scott, Beastie Boys, The Fugs, Jimmy Reed, Henry Cowell, King Sunny Ade, Little Richard, Marc Bolan, New York Dolls… Ma soprattutto ho (ri)ascoltato gran parte delle produzioni di Hal Willner. La sua scomparsa mi ha colpito come un macigno, perché lui è stato uno degli artisti più influenti sul mio percorso musicale. Un grandissimo visionario che mi mancherà molto. Oltre ai suoi capolavori sulle musiche di Rota, Monk, Weill, Disney, Mingus, Arlen… ho scoperto altre sue bellissime produzioni che non conoscevo, come ad esempio il suo unico disco solista Whoops, I’m An Indian, che poi ho avuto la fortuna di trovare online e acquistare in vinile.

Ricordo nel tuo disco su Auand del trio Zenophilia una bellissima rivisitazione del tema di “Taxi Driver”…

Anche questo bellissimo tema di Bernard Herrmann girava nella mia testa da parecchi anni e Zenophilia mi è sembrato il contesto ideale per riproporlo in una versione ridotta all’osso, dove mi sono divertito ad usare anche il fischio. La musica da film è un’altra delle mie passioni e proprio in questi giorni stiamo portando in giro con Guano Padano un nuovo progetto intitolato “The Movie Soundtracks Concert”, dove riproponiamo alla nostra maniera vari temi di alcuni dei nostri compositori preferiti come: Ennio Morricone, Jack Nitzsche, Ry Cooder, Nino Rota, Luis Bacalov, Bob Dylan, Bill Frisell…

Mi racconti il tuo primo approccio alla batteria e poi al jazz?

Fin da bambino ho avuto l’istinto di picchiare a ritmo di musica su sedie, pentole e divani, ma solo intorno ai tredici anni ho avuto modo di suonare una vera batteria e da lì è partito il mio percorso da assoluto autodidatta. Abitavamo in un appartamento di un grande condominio nel pieno centro della città ed era assolutamente impensabile poter suonare in casa. Ho avuto la fortuna però di crescere in una famiglia dove la musica è sempre stata una presenza costante. Mio padre era un appassionato di jazz e da giovane aveva suonato il contrabbasso. I suoi ascolti spaziavano da Miles Davis a Frank Sinatra, da Mingus a Coltrane fino ai cantanti italiani del periodo inter-bellico come Natalino Otto. I miei fratelli maggiori invece ascoltavano Led Zeppelin, Genesis, Jethro Tull, Yes, Pink Floyd, Dire Straits; uno di loro, all’epoca percussionista, era appassionato anche di musica cubana, per cui ho avuto modo di ascoltare i dischi degli Irakere o di Carlos Patato Valdez. Mia madre, poi, spesso cantava vecchie canzoni italiane mentre faceva i lavori di casa. Tutta questa musica assimilata in quegli anni, mi è entrata dentro inconsciamente in maniera profonda.
La mia prima grande passione in ambito jazzistico è stata sicuramente quella per Pat Metheny, di cui sono stato un grande fan per alcuni anni. Grazie a lui (e di questo gli sarò sempre riconoscente, oltre al fatto di aver consigliato Bill Frisell a Paul Motian) ho scoperto Ornette Coleman tramite Song X, tuttora uno dei miei dischi preferiti in assoluto. Da lì la mia curiosità mi ha portato a ritroso fino alla musica delle radici. Poi, alla fine degli anni Ottanta, ho scoperto la musica di Bill Frisell che ha segnato un punto di non ritorno nella mia sensibilità musicale. Da allora e per tutti questi anni, Frisell è stato per me come un faro e la sua musica continua ad essere il più potente antidepressivo in circolazione, per quanto mi riguarda. Da lì, poi, mi sono appassionato a tutta la cosiddetta scena downtown newyorkese, che successivamente ho avuto modo di frequentare più da vicino suonando con molti dei musicisti che vi erano coinvolti.
Ci sono stati, poi, alcuni concerti illuminanti ai quali ho assistito. Cito in particolare due di essi avvenuti nel 1990, ovverosia quello del trio di Geri Allen, Charlie Haden e Paul Motian ad Orbetello e quello del trio dello stesso Motian con Bill Frisell e Joe Lovano a Verona. Ma non posso tralasciare neppure quello dei Miniature (Tim Berne, Hank Roberts e Joey Baron), sempre a Verona nel febbraio del 1992, in seguito al quale conobbi Hank.
Proprio negli anni Novanta ho iniziato a suonare jazz nei club cittadini di Verona ed ho avuto la fortuna di farlo a stretto contatto con musicisti più esperti e preparati di quanto non lo fossi io. Tra questi ci tengo a citare Enrico Terragnoli, musicista straordinario e grande amico con il quale collaboro da allora in vari progetti, e Francesco Bearzatti, ritrovato poi dopo anni nel suo Tinissima Quartet. Proprio con Enrico e Francesco, nel 1995 ho formato il Kaiser Lupowitz Trio, un gruppo che guardava certamente verso New York e proprio lì, nel 1998, abbiamo registrato il nostro secondo disco You Don’t!. Sempre ripensando agli anni veronesi, ci tengo a citare anche il percussionista Sbibu, che mi ha aiutato molto dandomi ottimi consigli e facendomi ascoltare musica che ha ampliato i miei orizzonti.

Hank Roberts nelle note di copertina di Elpis parla dei tuoi mixtape, e in “To The Masters” citi molti nomi, diversi dei quali non appartengono al jazz. Mi racconti un po’ nel dettaglio?

La mia passione per i mixtape risale alla mia adolescenza, quando mi divertivo a creare su cassetta delle compilation che poi spesso regalavo ai miei amici. Ora continuo a farle ma adesso si chiamano playlist e sono ovviamente in digitale. Durante i viaggi in auto o in furgone quando sono in tour con qualche gruppo cerco di proporle, ed Hank è stato uno di quelli che ha apprezzato molto le mie scelte musicali bizzarre.
Tutti i musicisti che ho citato nelle note di “To The Masters” sono stati fondamentali nel mio percorso di crescita musicale. Ho amato e amo la loro musica e molti dei loro dischi sono delle pietre miliari nella storia della mia vita. Penso a dischi come Gris Gris di Dr. John, a The Legendary João Gilberto: The Original Bossa Nova Recordings (1958-1961), a Glow di Al Jarreau, a Bagels And Bongos di Irving Fields, a Bright Mississippi di Allen Toussaint o ad Outside di David Bowie, per citarne solo alcuni. Mi accorgo ora di aver dimenticato di citare nei credits (e me ne scuso) Pino Daniele, un altro musicista che è stato molto importante per me.

Condividiamo l’amore per Mark Hollis, mi piacerebbe dicessi qualcosa in proposito.

Siamo nel 1984, non ho ancora quattordici anni. Mi ritrovo con un gruppo di amici la domenica pomeriggio (quando l’Hellas Verona non gioca in casa) nel ristorante di famiglia di uno di loro, all’orario di chiusura post-pranzo. Guardiamo rapiti i primi video musicali su Dee Jay Television e a un certo punto compare questo personaggio buffo dall’aspetto improbabile che canta un pezzo straordinario intitolato “Such A Shame”. Il giorno dopo corro a comprare It’s My Life dei Talk Talk, il primo lp che ho acquistato in vita mia. Lo copio su cassetta e passo le vacanze estive (in famiglia, come tutti gli anni a Riccione) ascoltando in loop il disco sul mio walkman. Ai primi di settembre i Talk Talk vengono a suonare a Legnago e fortunatamente il padre di un mio amico ci porta a vedere il concerto. Sarà il primo concerto della mia vita. Negli anni successivi inizio ad appassionarmi in maniera viscerale al jazz diventando purtroppo uno “jazz-snob”, per cui prendo le distanze drasticamente dagli ascolti di gioventù. Mi perdo quindi il periodo più affascinante e straordinario dei Talk Talk, quello di Spirit Of Eden e soprattutto di Laughing Stock, ascolti che fortunatamente recupererò più avanti negli anni. Nel 2001 mi trovavo ad Amsterdam durante un tour con un gruppo con cui suonavo all’epoca, Palo Alto con Danilo Gallo, Nicola Fazzini e Dario Volpi. Ero ospite del mio amico Mark Tuinstra, ottimo chitarrista, e fu lui a darmi una copia del disco solista di Mark Hollis. Rimasi steso! Da allora è diventato uno dei miei dischi fondamentali. È incredibile il lavoro di sintesi a cui arriva in questo lavoro che sarà poi il suo congedo dal mondo della musica. Lo associo per certi versi a quello di Paul Motian. Nel 2015 io e il mio compare Giorgio Pacorig gli abbiamo dedicato il brano di apertura del nostro disco in duo Sleep Talking: il pezzo si intitola “January 4th”, che è la sua data di nascita oltre a quella di Beth Gibbons. La notizia della morte di Hollis mi ha lasciato un segno profondo, anche se ormai era scomparso musicalmente da anni, è come se fosse morto qualcuno di famiglia. Lui è anche uno dei motivi per cui simpatizzo per il Tottenham Hotspurs, squadra del quartiere in cui è nato e di cui pare fosse tifoso.

Entrando nel particolare del disco, sempre “To The Masters” mi ha colpito con il suo afflato coltraniano/gospel. Mi descrivi il pezzo e mi racconti come è avvenuto il lavoro di scrittura e la tua relazione con Pacorig e Bigoni?

È una sorta di preghiera laica scritta per rendere omaggio a tutti i grandi maestri che ci hanno lasciato negli ultimi anni. Ho cominciato a prendere coscienza di questa cosa – credo – dopo la morte di Paul Motian, uno dei musicisti che ho vissuto in maniera più viscerale. Mentre prima la maggior parte dei grandi che ci lasciavano erano in qualche modo delle icone legate ad un tempo che purtroppo non avevo potuto vivere in prima persona, molti di quelli che se ne stanno andando ora (penso ad esempio a Gary Peacock, scomparso pochi giorni fa, o ad Hal Willner vittima del covid-19), sono state presenze costanti nella mia vita, ho avuto modo di ascoltarli spesso dal vivo e in alcuni casi anche di conoscerli in prima persona. Tutto questo poi fa riflettere sull’inesorabilità del tempo che passa.
Per quanto riguarda il lavoro di scrittura, devo dire che non sono assolutamente un compositore metodico. La parola compositore, poi, mi mette ancora una certa soggezione perché inevitabilmente la associo a personaggi del calibro di Igor Stravinsky, Duke Ellington o di Giuseppe Verdi… Spesso le idee per un brano mi vengono nei momenti più improbabili, mentre guido oppure mentre esco per prendere il pane (come nel caso di “Bread”). Ho la grande fortuna poi di avere nel mio trio Francesco e Giorgio, che – oltre ad essere degli straordinari musicisti – sono due grandi amici con un grande spirito collaborativo. Ognuno di loro ha dato un grande contributo anche sugli arrangiamenti, o in post-produzione (penso ad esempio all’idea di Francesco di sovraincidere un altro sax nel solo di “Sam”).

“Sam”, invece, è dedicata al folk singer Sam Amidon, ma io ci sento tanta Africa. Ci dica!

In effetti ci hai visto bene, nella mia testa il pezzo era un viaggio immaginifico tra i monti Appalachi e il Mali, tra Sam Amidon e Ali Farka Toure. Ho scoperto la musica di Amidon per caso alcuni anni fa. Stavo guidando, ascoltando Radio 3, credo che la trasmissione fosse “6 gradi”, e ad un certo punto ho sentito questa sonorità straordinaria, un incontro riuscitissimo tra un certo tipo di folk americano che amo molto e l’improvvisazione jazz. Il suo modo di cantare poi mi ha colpito molto, strettamente collegato alla tradizione di Roscoe Holcomb e Dock Boggs. Ad un certo punto del brano poi entra un suono di tromba bellissimo e inconfondibile, quello del grande Kenny Wheeler. Non appena tornato a casa, andai a rivedermi la scaletta della puntata per scoprire di chi fosse quel brano, si trattava di “I Wish I Wish”, tratto da Bright Sunny South. Da quel momento sono diventato un suo grande fan e successivamente siamo diventati anche buoni amici dopo averlo invitato per un paio di tour insieme ai Guano Padano.

Ci sono diversi riferimenti alla letteratura nel disco, ed il titolo viene dal greco, speranza. Hai studi classici alle spalle, per caso? Quali sono le tue fonti di ispirazione extra-musicali? Sono tempi in cui è possibile sperare questi, secondo te?

No, ma mia moglie Nicoletta sì! È stata lei ad aiutarmi a trovare il titolo del primo disco del trio Kepos. Volevo rendere l’idea di un giardino intimo e raccolto dove poter coltivare la nostra musica e lei ha trovato il titolo perfetto riferendosi al giardino di Epicuro. Mi piaceva l’idea di continuare con il greco antico e sempre lei mi ha suggerito Elpis mentre cercavo un segno di speranza da lasciare ai nostri figli (nel nostro caso quattro, per giunta!). Con questi presupposti sarei un pazzo a dirti che non c’è più speranza, voglio credere che le nuove generazioni possano portare qualcosa di positivo per migliorare la vita su questo pianeta. Allo stesso tempo, però, devo dirti che non mi sento più molto a mio agio in quest’epoca, mi sento un vecchio trombone novecentista in perenne disagio.
Per quanto riguarda le ispirazioni extra-musicali presenti nel disco, ad esempio, si può trovare un omaggio alla sfortunata attrice americana Jean Siberg, icona della Nouvelle Vogue francese e protagonista di uno dei miei film preferiti di quel periodo, “À boute de souffle” di Jean-Louc Godard; o ancora, un brano di Francesco ispirato al personaggio principale del libro di Philip Roth “The Breast”. Cinema e letteratura (soprattutto americana) sono alcuni degli interessi che ho sempre cercato di coltivare, almeno fino a qualche anno fa, perché ora, con tutti questi figli piccoli a cui badare, il tempo a disposizione da dedicare alle passioni diverse da loro è veramente poco. Ultimamente però, dopo molto tempo, sono riuscito a riprendere in mano qualche libro, quindi voglio essere ottimista! Al momento sto leggendo “Sula” di Toni Morrison e “Musica infedele” di Elvis Costello.

Ci vuoi spiegare quella idea deliziosa delle figurine Panini con i jazzisti italiani partorita durante il lockdown? E, finalmente, parliamo un po’ di calcio, della tua passione per Bordon e del tifo per la Samp? Chi vince il prossimo scudetto? Siamo condannati al decimo della Juve? Esiste una relazione nella tua testa tra calcio e musica, tra un certo tipo di calcio e un certo tipo di musica?

Quello è stato un esperimento molto divertente, anche se a un certo punto è diventato quasi un lavoro, viste le richieste che continuavano ad arrivare! Per un attimo, utopicamente, ho avuto l’impressione di aver avvicinato tutto il mondo del jazz italiano come mai era successo prima: anche se in maniera ironica, in quel momento drammatico in cui le istituzioni ci ignoravano, mi è parso un modo di dire “ci siamo anche noi!”. Ancora adesso incontro molti musicisti che mi ringraziano per aver alleggerito il loro lockdown e ne sono sinceramente felice.
Ivano Bordon è stato il mio primo eroe contemporaneo. Da piccolo ho giocato a calcio intensamente quasi tutti i giorni della mia vita in qualsiasi condizione metereologica, dai 6 ai 17 anni circa. Ufficialmente il mio ruolo era quello di portiere, anche se nei campetti parrocchiali mi divertivo a giocare anche in attacco. Mi sono innamorato dello stile di Bordon, senza dubbio il più elegante tra i portieri di quell’epoca e quando nel 1983, dopo aver passato tutta la sua carriera all’Inter, passò alla Sampdoria, io decisi di seguirlo (a proposito, ti consiglio di leggere il suo libro “In presa alta” uscito da pochi mesi). Da lì in poi mi appassionai ai colori blucerchiati, prima con la squadra della prima Coppa Italia vinta dal club (1984/85), quella appunto di Bordon, Scanziani, Souness, Francis, per intenderci, fino poi alla gloriosa stagione dello scudetto del 1990/91. Ricordo che il 19 maggio 1991, dopo la vittoria sul Lecce per 3-0, che decretò aritmeticamente lo storico scudetto, uscii di casa a Verona indossando la maglia della Samp. Purtroppo dovetti festeggiarlo da solo perché mi trovavo nella città sbagliata. Sono un nostalgico del calcio di quegli anni, anni in cui i numeri sulle maglie andavano da 1 a 11, e soprattutto dove il portiere giocava con la maglia a maniche lunghe. Il calcio di oggi lo seguo ma non mi regala grandi emozioni. L’ultimo giocatore che mi ha appassionato è stato Iker Casillas, ma ormai ha smesso di giocare anche lui e comunque aveva il grande difetto di giocare a maniche corte… Posso dirti purtroppo con certezza che il prossimo scudetto non lo vincerà la Samp e nemmeno il Benevento, speriamo possa vincerlo l’Atalanta.
Certamente esiste nella mia testa una relazione tra l’organizzazione di una squadra di calcio e quella di un gruppo musicale. Trovo molte analogie poi tra il ruolo di portiere e quello del batterista, spesso hanno la stessa visione del gioco, entrambi possono usare i quattro arti e possono far giocare la squadra con tranquillità. Con un batterista e un portiere solidi ti trovi sempre con le spalle coperte. Il basso rappresenta la difesa, pianoforte e chitarra giocano a centrocampo mentre i solisti sono in attacco. Io perlomeno la vedo così. Inoltre il fatto di aver giocato a calcio in una squadra da giovane, imparando a lavorare tutti insieme per raggiungere lo stesso obiettivo, mi ha aiutato tantissimo anche nella musica.

Con Guano Padano avete in programma nuove uscite a breve?

Stiamo lavorando proprio in questi giorni al nuovo disco, se tutto va bene dovrebbe uscire a fine anno o all’inizio del prossimo. Inoltre vorremmo registrare presto anche quello sulle colonne sonore che stiamo portando in giro ultimamente. Anche se ci stiamo chiedendo quanto senso abbia ancora fare dischi, visto il triste andamento di questo mercato.

Ivano Bordon