XIU XIU, OH NO

OH NO, la depressione, l’isolamento, la pandemia. Oh yes, un altro disco, gli amici, la compagnia. Alle spalle quasi venti anni a sovvertire la forma-canzone, tanto nelle soluzioni sonore anticonvenzionali quanto nei temi “sconvenienti” delle liriche, gli Xiu Xiu oggi condotti da Jamie Stewart, ovviamente, e da Angela Seo, anche responsabile dei video, da pochissimo hanno pubblicato su Polyvinyl il dodicesimo album (senza contare i tributi ad altri artisti), composto e registrato nel loro studio casalingo in quel di Los Angeles tra 2019 e 2020, nonché prodotto dalla stessa Seo con Lawrence English e il fido Greg Saunier dei Deerhoof.

Non nuovo alle collaborazioni, Mr. Stewart ha reagito a un periodo di particolare crisi personale, che lo aveva addirittura portato ad annullare l’attività concertistica, riscoprendo il piacere della socialità. Fragile equilibrio psichico e solitudine a fronte di tante relazioni in frantumi sono stati archiviati grazie al supporto di colleghi e fan, uniti dalla musica. Al punto che Stewart ha affermato: Gli ospiti di OH NO riflettono i tipi di persone, e molte delle stesse, che mi hanno aiutato a ricordarmi che il rapporto tra gli esseri umani belli e quelli di merda è più simile a un 60/40 piuttosto che a un 1 su 99, come avevo sempre pensato.

Premesse doverose per affrontare un album interamente di duetti: se ormai il vizio del featuring tenta qualsivoglia progetto mainstream o improntato alla festosità della parata VIP, inutile specificare che qui si prosegue invece su strade perdute vieppiù nell’oscurità, come lasciano intuire gli intensi occhi filo-siouxsiani di copertina, alla scoperta di un fragile electro-pop di cristallo nero, pronto ad andare in frantumi con scariche noise e vibrazioni sperimentali. Ne risulta un ascolto ad ogni modo più accessibile del solito (si prenda ad esempio la semi-filastrocca che è la title-track con Susanne Sachsse), fluido in ogni accezione nonostante tutto, giocoso e oseremmo timidamente dire a sprazzi gioioso.

C’è il medesimo Saunier, nella ballad disturbata che è “Goodbye For Good”, e c’è Seo a ritagliarsi lo spazio principale nella fascinosa teatralità dark di “Fuzz Gong Fight”. Ci sono nomi pertinenti alla casa madre, per una confessionalità a tratti barocca o post-glam, da Drab Majesty a Circuit Des Yeux e Owen Pallett, e nomi da essa ora come ora distanti, leggasi un indecifrabile Twin Shadow.

Ci sono poi però le carte più positivamente sorprendenti, a partire dalla magica mestizia di “Sad Mezcalita” con Sharon Van Etten, per arrivare alla cover di “One Hundred Years” dei Cure – adorata da Stewart sin dai tempi del liceo – in chiave goth industrial al fianco di Chelsea Wolfe. Citiamo poi Angus Andrew (Liars) nella dirompente “Rumpus Room” e il nostro Fabrizio Modonese Palumbo (Larsen) nel lynchiano blues digitale di “A Classic Screw”. “A Bottle Of Rum” è ispirata a Grouper ed è Grouper in persona a parteciparvi: cerchi che si chiudono. Se la felicità è autentica solo se condivisa, la sofferenza e relativa elaborazione non sembrerebbero da meno.